mercoledì 30 novembre 2005

"La sposa cadavere" di Mike Johnson e Tim Burton


Trama: XIX secolo. Victor sta per sposare la fidanzata Victoria, ma imbranato quale è non riesce a ricordarsi il rito nuziale che deve recitare da lì a poche ore. Disperato si allontana dal paese e finisce per perdersi in un lugubre bosco. Sarà lì che risveglierà per sbaglio il cadavere di una giovane sposa assassinata anni prima.

Mike Johnson e socio (per pareggiare la fama non cito Burton ché è già fin troppo riconosciuto, mentre Johnson non lo caga nessuno…) hanno impiegato dieci anni per finire questo film d’animazione completamente girato in stop motion, la stessa tecnica utilizzata anni fa per girare “The nightmare before Christmas” uscito nel 1993. Facendo qualche calcolo… i due registi praticamente si sono fermati un paio d’anni per riprendere fiato e nel 1995 hanno subito ricominciato le riprese per “La sposa cadavere”.

Anche in questo lungometraggio il tema della morte in conflitto con il mondo dei vivi è presente (che Tim Burton stia preparando una trilogia…?), qui però la storia prende spunto da una leggenda ebraica ed è tutta giocata sui contrasti: tanto più il mondo dei morti è vivo e colorato, tanto più quello dei vivi è triste, oscuro nel quale prevale il blu (non a caso in inglese “blue” significa “tristezza”); la differenza tra i due mondi salta maggiormente agli occhi nella sequenza del balletto degli scheletri, mentre in superficie piove a dirotto e la città è sempre oppressa da un’atmosfera lugubre.

Le stesse protagoniste femminili, Victoria ed Emily la sposa cadavere, sono l’una l’opposto dell’altra: Victoria vaga nella sua spoglia dimora (nella quale l’unico accenno di vita è un fiore ormai appassito) col colorito smunto e infilata in abiti castigati tutt’altro che sensuali; Emily passeggia provocante mettendo bene in vista le labbra carnose e gli occhioni dalle lunghe ciglia.

Chi fa da tramite tra i due mondi è Victor, che cerca in tutti i modi di ritornare dall’amata Victoria (i nomi stessi fanno già presagire come si concluderà la storia: “Victor-Victoria”), a lui è associata la figura del pomposo lord che cerca di rubargli la scena.

I genitori dei due futuri sposini sono invece collegati dalla silhouette grassa (la madre di Victor e il padre di Victoria) e magra (il padre di Victor e la madre di Victoria).

Odio i ragni, ma la “vedova nera” amica di Emily era veramente carina, con le sue movenze civettuole da gattina.

Varie le citazioni, da “Via col vento” a Joyce, fino alla “Antologia di Spoon River”.

Il doppiaggio italiano una volta tanto sembra essere fatto come si deve, non mi è però piaciuta la voce con accento romanesco affibbiata allo scheletro canterino.

9/10

P. S.: avete notato che le sembianze dei pupazzi sono esattamente ricalcate su quelle degli attori che gli hanno dato la voce, e che nei titoli di coda i doppiatori originali (da Johnny Depp fino a Emily Watson) sono citati come veri e propri interpreti del film

martedì 29 novembre 2005

"La mia vita a Garden State" di Zach Braff


Trama: Andrew torna nella sua città natale, dopo nove anni di assenza, per il funerale della madre. Nel week-end trascorso nel suo paese natio si vede costretto a farsi un esame di coscienza e a capire se il tempo trascorso lontano da casa sia servito a risolvere i contrasti con il padre.

Sapete chi è Zach Braff che oltre a firmare la regia del film ne è anche il protagonista? Sì, è proprio il Dottor John di “Scrubs”; ma personalmente non credo che questo film si possa collegare al telefilm trasmesso da Mtv, ed è proprio questo il motivo per cui in molti ne sono stati delusi: troppi paragoni con “Scrubs” che non trovano fondamento.

In molti si sono chiesti perché Braff per tutta la durata del film ha quell’espressione da ameba, da rimbambito. Beh, come vi sentireste voi se per tutta la vita siete stati vessati da un padre che vi ha imbottito di farmaci? E che, dopo la vostra decisione di farvi una vita da soli, da adulti, vi perseguita con le sue teorie da Dottor Lecter? E se, soprattutto, nella vostra carriera da attore siete riconosciuti solamente per la vostra parte da ritardato in un telefilm? Quindi l’interpretazione di Braff riflette alla perfezione il senso di angoscia e smarrimento del protagonista.

Per quanto riguarda la trama, è la solita storia in cui il passaggio definitivo all’età adulta del protagonista, ingabbiato fino a quel momento in un ruolo che gli va ormai stretto, avviene grazie al confronto con gli amici d’infanzia che sono rimasti al punto di partenza, con la famiglia e l’avvento dell’amore mai conosciuto prima in una vita grigia e monotona.

Ecco, questo è il succo del film. Se spremiamo ancora un po’ troviamo però una bella interpretazione dell’attore protagonista (che, è da notare, ha dovuto dirigere tutto il film e anche se stesso per la prima volta nella sua carriera cinematografica), divertenti gags, discorsi profondi (anche se la presunta epilessia del personaggio interpretato dalla Portman, Samantha, è affrontata in maniera superficiale, così come la paralisi della madre di Andrew), una bella fotografia e un’azzeccata colonna sonora (che anche da sola vale il prezzo del biglietto!).

Pecca un po’ il finale spudoratamente scopiazzato da due film culto come “Il laureato” e “I vitelloni”: per il primo mi riferisco alla scena in cui Andrew, presa la decisione di non tornare in città, bacia Samantha appassionatamente per poi finire con i due che si guardano un po’ straniti chiedendosi “E ora???”, proprio come ne “Il laureato” fecero Elaine e Benjamin dopo esser scappati su un autobus con lei in abito nuziale; per il secondo mi riferisco alla sequenza in cui, mentre Andrew percorre gli ultimi metri che lo separano dall’aereo che sta per prendere, passano in carrellata le immagini che ci permettono di scoprire cosa stanno facendo i sui amici in quel momento (cioè NULLA, come sempre…), stessa tecnica la si ritrova nella sequenza finale de “I vitelloni”.

7/10


P. S.: Forse non tutti sanno che… Garden State non è il nome del paese natio di Andrew, ma bensì un soprannome con cui in America chiamano lo stato del New Jersey.

sabato 26 novembre 2005

"Storia di Piera" di Marco Ferreri

Trama: il film prende spunto dalla storia autobiografica della attrice Piera Degli Esposti, che poco più che bambina si trovò costretta ad accudire la madre affetta da crisi isteriche e ninfomania. Questo loro rapporto di amore-odio durante la crescita di Piera si trasforma in un sentimento che va oltre al semplice affetto tra madre e figlia.

Non credete che la visione di questo film sia così facile come leggere la trama che ho riportato qui sopra. Il film non segue un filo logico, se non quello della crescita della protagonista dal 1939 agli anni ’80.

Della situazione famigliare di Piera si intuisce soltanto che entrambi i genitori sono affetti da disturbi psichici, in particolar modo la madre che, nonostante l’elettroshock a cui venne sottoposta come estremo rimedio al degrado in cui precipitava la sua personalità, cercò sempre di attirare la figlia nel circolo vizioso in cui era caduta, fino alla totale accettazione di Piera a seguire la madre nelle sue escursioni notturne in cerca di avventure; c’è un fratello che appare e scompare a piacimento del regista durante il corso del film, così come i molti personaggi secondari che ad ogni sequenza vengono dimenticati per essere sostituiti da altri.

Non viene spiegato in modo chiaro il vero legame che unisce Piera ai genitori, con i quali sembra avere un rapporto incestuoso; si può solo intuire il motivo del ricovero in ospedale di Piera e quello dell’amicizia che la lega ad una ragazza; non viene mostrato il percorso artistico di Piera fino alla sua affermazione di attrice, cosa che è dura da intendere fra le righe se non si ha almeno una minima idea di chi rappresenti in realtà la protagonista, cioè l’attrice Degli Esposti.

Al termine del film la stessa Piera si rivela essere come la madre, mentre fino a quel momento sembrava essere l’unica ad avere un po’ di “sale in zucca”, ma i dialoghi senza senso, soprattutto quelli con il padre, già presagivano qualcosa.

Ma l’apoteosi del nonsense si ha con l’arrivo in scena di Loredana Berté.

Qual è lo scopo del film? Forse far perdere tempo allo spettatore.

Aspetto di leggere il libro da cui è tratto questo film per farmi un’idea un po’ più accettabile.

N. C.

P. S.: Va bene che il film è del 1983, ma dovevano proprio farlo uscire nelle sale con quella orribile locandina?
Se il film è l’apoteosi del nonsense, la locandina lo è del trash!

martedì 22 novembre 2005

"Non ci sono solo le arance" di Jeanette Winterson



Trama: adottata da una famiglia molto religiosa della provincia inglese, Jeanette cresce imparando cos’è la vita sulle sacre scritture. Quando però inizia a frequentare una scuola pubblica si rende conto che tutto quello che le è stato inculcato dalla madre bigotta ha poco riscontro nella “realtà”, soprattutto quando la sua relazione sentimentale con una coetanea mette scompiglio nella piccolo paesino in cui vive.

Romanzo di esordio della Winterson, con il quale è stata insignita del prestigioso Whitebread Award, narra in maniera autobiografica la sua infanzia fino all’età adulta quando lei stessa decide di dichiarare apertamente la sua omosessualità alla comunità in cui è cresciuta.

Anche se il romanzo in sé è molto valido, quello che non mi è piaciuto è lo stile di scrittura della Winterson che tutti decantano in maniera entusiastica.

Nel corso della narrazione l’autrice ha spesso il vizio fastidioso di ripetere fatti o curiosità già menzionati; e durante la lettura del libro non ci vengono date informazioni sufficienti per capire di quale periodo della sua vita l’autrice stia parlando.

Quello che trae in inganno è anche la mancanza d’evoluzione del personaggio: non ho notato la crescita, il passaggio dall’infanzia all’età adulta della protagonista; la scrittura è piatta, l’autrice per parlare di sé bambina utilizza lo stesso linguaggio per parlare di sé adulta.

I personaggi che rappresentano la Chiesa Cattolica (il prete, la madre e tutta la comunità locale), tentano in tutti modi di ostacolare Jeanette, rea di aver peccato. Ma la parte del cattivo è talmente ridicola e caricaturale, anche quella del prete, che stento a credere che ci possano essere dei ferventi cattolici di questo tipo (che tra l’altro sembrano finti).

Non capisco perché dopo aver speso fiumi di parole per la “riabilitazione” delle lesbiche, Jeanette si rassegni a vivere con sua madre, nonostante quest’ultima si fosse resa conto che “in fondo non ci sono solo le arance” (metafora che indica il voler ghettizzare le inclinazioni sessuali in circoli ben predefiniti e dai quali non c’è scampo, in questo caso l’arancia simboleggia il giusto percorso che ogni uomo deve fare per rimanere sulla retta via); la madre quindi accettando in un certo senso la decisione della figlia, dovrebbe dare la spinta decisiva a Jeanette per iniziare una nuova vita, senza il dubbio assillante di stare sbagliando, Jeanette però decide di ristabilirsi nel suo paese natio e di continuare a fantasticare sul modo più adatto per chiudere con il passato e la sua famiglia.

Ma al di là di queste mie critiche, sicuramente questo libro servirà a chi ha le idee confuse sul rapporto tra religione e omosessualità perché il messaggio è molto chiaro e rimarrà impresso nel lettore, e non sarebbe brutto veder inserito questo romanzo fra le letture scolastiche.

5/10 per lo stile di scrittura

7/10 per la storia

lunedì 21 novembre 2005

"Il castello errante di Howl" di Hayao Miyazaki


Trama: la diciottenne Sophie lavora nel negozio di cappelli di famiglia. Un giorno in città incontra per caso il Mago Howl di cui tutti parlano per la sua straordinaria bellezza e per il suo curioso castello semovente. La Strega delle Lande Desolate, che era all’inseguimento di Howl, quando vede i due giovani insieme lancia una maledizione all’ignara Sophie scambiata per una complice del Mago. La ragazza si ritrova così invecchiata di colpo e per riuscire a sciogliere l’incantesimo si mette alla ricerca di qualcuno che possa aiutarla a riappropriarsi della sua vera età. Durante il cammino si imbatte nel castello errante di Howl dal quale si fa assumere come donna delle pulizie.

“Il castello errante di Howl” è una summa di tutti i temi trattati finora da Miyazaki nei suoi film: la guerra, il male da combattere contro forze oscure e sconosciute; il tema del volo come simbolo della “fuga dalla realtà”; ambientazione non ben definita ma comunque di stampo europeo (da vedere per questo particolare anche “Kiki’s delivery service”); epoca in cui si svolge la storia intorno ai primi del Novecento anche se molti elementi fanno pensare ad una contaminazione con altre epoche; una giovane protagonista che deve affrontare le difficoltà della vita e prova per la prima volta amore verso un compagno.

Da notare che Miyazaki si rivolge ad un pubblico di età giovanile e molto spesso femminile in Giappone, ecco perché i protagonisti dei sui film sono quasi sempre giovani che affrontano la vita; le sue opere si possono vedere anche sotto l’ottica del film di formazione.

In Italia invece il pubblico presente in sala non era per niente giovane, bambini presenti: due. E non so quanto avranno capito del film, soprattutto per il finale, che nei film di Miyazaki deve essere sempre interpretato analizzando anche elementi un po’ oscuri e significati nascosti.

Ecco perché mi ostino a dire che il cinema d’animazione NON è solo per bambini.

Spicca ancora la bravura di Miyazaki, la minuzia di particolari nei disegni, i movimenti fluidi e assolutamente perfetti dei personaggi, i vestiti e i capelli che si muovono al vento, le lacrime della mamma di Sophie che rigano il suo volto, i colori vivi, la psicologia dei personaggi molto approfondita anche per i personaggi secondari come ad esempio Calcifer, la splendida colonna sonora firmata da Joe Hisaishi e molto altro ancora. Bellissimo, stupendo!

Ci sono però alcuni passaggi non chiari nella storia, pecca che ho riscontrato anche in altri film di Miyazaki, e mi riferisco ad esempio alla sequenza in cui la mamma (vera o presunta) di Sophie si reca dalla giovane, le parla supplicandola e se ne va in carrozza come se niente fosse, questo passaggio è poco chiaro anche perché la madre di Sophie sparisce per tutto il resto della storia; o ancora il finale un po’ troppo affrettato in cui mi sarebbe piaciuto avere qualche informazione in più sulla storia dello spaventapasseri.

Ma con i film di Miyazaki non bisogna farsi troppe domande, anche perché questi piccoli “errori” sono pienamente ricompensati da tutte le emozioni che questo regista è in grado di farci provare con dei semplici personaggi disegnati su un pezzo di carta.

E’ un capolavoro da vedere assolutamente “senza fallo”!

9½/10

P. S.: non notate una certa somiglianza…?


Hayao Miyazaki e il cagnetto Heene.


domenica 20 novembre 2005

"La tigre e la neve" di Roberto Benigni


Trama: Attilio nel tentativo di riconquistare la donna che ama è disposto a seguirla fino a Bagdad mentre la guerra imperversa portatrice di desolazione e morte.

Incuriosita dall’ultima opera di Benigni mi son detta “Perché no? Andiamo a vedere il suo ultimo film”, nonostante tutte quelle sue comparsate in tv puzzavano lontano un miglio di pura e semplice “propaganda” per la sua ultima fatica che evidentemente non attirava abbastanza pubblico in sala.

Il trailer visto in tv sembrava suggerire molte gags divertenti come Benigni ha sempre saputo inventare, peccato che le uniche che mi hanno soddisfatta veramente sono state solo quelle che avevo già visto in tv.

Puntiamo allora tutto sui contenuti, mi son detta, ma a parte le poesie e i concetti filosofici di Reno, mi è sembrato che il tutto scadesse nel ridicolo; la trama prima di tutto, intrecci e colpi di scena che non reggono: ad esempio come ha fatto Attilio a raggiungere Bagdad senza nessun intoppo? Come ha fatto, con la carenza di medicinali che imperversava nel paese, a trovare quelli che cercava? E il beverone di glicerina preparato in casa con mezzi di fortuna somministrato a mo’ di aperitivo con la cannuccia?

Va bene, si tratta di finzione e la presenza martellante della poesia, del sublime, dei sentimenti dovrebbe sottolinearlo, ma non dimentichiamoci che si sta parlando comunque di guerra, in Iraq, e che quella non è stata inventata di sana pianta per esigenze cinematografiche.

Lo stesso Benigni nel recitare non è convincente, ha conosciuto tempi migliori, e poteva evitare quel grazioso epiteto sicuramente fuori luogo urlato alla sua donna mentre scappa su un tram; Nicoletta Braschi invece mi è piaciuta, ma tenendo conto che per 3/4 di film giace come un’ameba in un letto…

Si salvano solo la colonna sonora e il finale con la trovata geniale di riuscire a mettere “una tigre sotto la neve”.

Appena uscita dalla sala ho pensato di dargli un 8, ma ripensandoci gli do:

6/10

E non me ne voglia Hawk se ho cambiato idea…

sabato 19 novembre 2005

"La spettatrice" di Paolo Franchi



Trama: Valeria conduce una vita solitaria a Torino, ha solo un’amica e per lenire il senso di inadeguatezza che la tormenta trova sollievo spiando il suo vicino di casa. Quando l’uomo si trasferisce a Roma lei decide di seguirlo.

Il tema tragico e impegnato con cui Franchi ha deciso di esordire come regista è affrontato in maniera adeguata e convincente, soprattutto grazie alla bravura di Barbora Bobulova che è riuscita a calarsi completamente nel personaggio protagonista sul quale grava la buona riuscita del film.

La sequenza iniziale mi ha molto ricordato, complice la colonna sonora, i film di Alfred Hitchcock e in particolare “La finestra sul cortile”: Valeria spia nel buio della sua stanza il dirimpettaio Massimo cercando di scacciare in quel modo i demoni che la perseguitano, così come succede (in un certo senso) a Jeff in “La finestra sul cortile” che, per trovare uno svago alla condizione di malato in cui si trova, spia i vicini del palazzo di fronte.

Ed è proprio nel ruolo di semplice spettatrice che Valeria vive la sua vita, non riesce ad interagire con chi le sta intorno, nemmeno con l’unica amica che non perde tempo ad invidiarle la sua capacità di stare da sola; stesso discorso le farà Massimo quando i due si incontreranno, non proprio casualmente, a Roma dove la giovane lo ha seguito.

Anche a Roma però Valeria è sola e il senso di angoscia che percepiamo guardandola camminare per strada, lavarsi in uno squallido bagno d’albergo, bere un caffè in un bar, non l’abbandona; ma mentre prima eravamo noi che guardavamo gli altri attraverso i suoi occhi, adesso siamo noi che spiamo lei dietro una finestra dell’albergo, questo perché Valeria ha preso la prima decisione ferma e definitiva della sua vita: seguire l’uomo di cui si è invaghita per dare una svolta alla situazione in stallo in cui si trova e, non essendo più la spettatrice, il suo ruolo viene passato momentaneamente a noi spettatori.

Una serie di coincidenze (forse troppe) fanno sì che Valeria riesca a insinuarsi lentamente nella vita di Massimo grazie anche alla sua compagna, Flavia, per la quale Valeria inizia a lavorare.

La ragazza ora non è più spettatrice della vita in generale ma, senza volerlo, diventa quella della storia difficile tra l’uomo che ama e la sua compagna, e ne segue il percorso tormentato che porterà fino all’allontanamento reciproco dei due; Valeria è riuscita lentamente ad entrare nella vita di Massimo, così come si era prefissata, il quale ora è divenuto lo spettatore dell’esistenza della ragazza: la segue, la spia dietro una vetrina di un bar, pur di poterla vedere per un solo istante e dirle che la ama.

Così succede, ma Valeria rifiuta davanti al desiderio avverato e scappa rifugiandosi di nuovo nel suo ruolo che la segnata così profondamente da non permetterle di dare una vera svolta alla sua vita, cosa che invece lei stessa è riuscita a fare per le esistenze di Massimo e Flavia.

Molto buona l’interpretazione di Barbora Bobulova e di Brigitte Catillon (grazie anche a Licia Maglietta che l’ha doppiata in italiano), un po’ meno soddisfacente Andrea Renzi che nelle sequenze iniziali sembra solo essere rigido e insensibile (anche quando gli muore il cane), migliora però verso il finale.

7/10


Molto bella la locandina che, se guardata attentamente, dà l’impressione di vedere un occhio il cui sguardo è rivolto alla nostra sinistra: il bavero del cappotto alzato e i capelli scostati dal viso isolano il chiaro del volto della Bobulova, lasciando la parte sinistra della fotografia completamente in ombra dando l’impressione del taglio di un occhio, la cui pupilla è rappresentata dal viso della Bobulova.

mercoledì 16 novembre 2005

"L'assassino cieco" di Margaret Atwood


Trama: passato e presente si intrecciano nel racconto di Iris Chase, erede di una ricca famiglia di industriali canadese. La sua vita e quella dei suoi antenati si alterna ai capitoli del libro che sua sorella Laura aveva scritto prima di morire, i cui protagonisti sono un uomo e una donna e la storia di fantascienza che l’uomo racconta alla sua amante nei loro brevi incontri d’amore.

“Bellissimo!” è la prima parola che ho pronunciato nel momento in cui ho terminato di leggere questo romanzo.

Superate le prime 150 pagine, un po’ lente e piatte, non sono più riuscita a fermarmi; il racconto prende la rincorsa per terminare in un finale ricco di colpi di scena, alcuni prevedibili già prima della fine altri architettati in modo perfetto.

Il racconto è così pieno di ironia, cinismo, passione, odio, un’accozzaglia di sentimenti che lo rendono vero e perfetto; i vari generi letterari che si intrecciano nella narrazione (fantascienza, romanzo d’amore, noir) non stancano il lettore, che può così leggere tre libri in uno legati da un solo filo conduttore: la figura della protagonista Iris che tiene le fila di tutto il romanzo ed è l’unica a sapere la verità su alcuni segreti di famiglia.

Sicuramente lo rileggerò con piacere, ma non posso dargli 10/10 perché il romanzo perfetto non esiste.

9½/10


domenica 13 novembre 2005

"Frida" di Julie Taymor


Trama: il film ripercorre la vita della pittrice messicana Frida Kahlo segnata dall’incidente che ebbe a 18 anni in cui rischiò di morire e che le causò dolorosi strascichi per tutta la vita, e la tormentata storia d’amore con il pittore Diego Rivera.

Il film, prodotto e interpretato da Selma Hayek che qui vediamo vestire i panni della protagonista, ha beneficiato anche dello speciale fondo istituito in nome della pittrice. Ma la regista avrebbe potuto affrontare un film biografico di questo tipo in modo diverso.

Non mi è piaciuto l’eccessivo soffermarsi sulle storie d’amore della Kahlo, tra il marito, le amanti, gli amanti e i personaggi politici, che hanno così spostato l’attenzione su questo lato della vita della pittrice lasciando in secondo piano quello artistico, ben più importante.

La pittura è presente nella pellicola tramite tableaux-vivant (cioè veri dipinti che vengono ripresi e ricreati in studio e “interpretati” dagli stessi attori) che ripercorrono le tappe più importanti della vita della Khalo, ma non si può certo relegare così l’opera di questa pittrice che si è fatta conoscere nel resto del mondo solo dopo gli anni ’80, e credo siano veramente poche le persone che conoscono la sua arte in maniera approfondita; in questo modo quello che traspare dalla pellicola è solo l’aspetto più moderno, scabroso e anticonformista della pittrice (lei che nascosta in un armadio amoreggia con il primo fidanzato, lei a letto con una donna conosciuta in un locale, lei che balla il tango con un’altra donna, ecc…) e della sua passione per la pittura si riesce a capire ben poco!

Brutta la sequenza in cui a Frida viene tolto il gesso che l’ha costretta a letto per nove mesi dopo il tragico incidente, dove il gesso aperto dalle forbici del medico viene paragonato al bozzolo delle farfalle che lei disegnava per scacciare la noia: nasce in lei una Frida che è pronta ad aprire le ali per una nuova fase della sua vita. Veramente una brutta scena, vista e stravista.

L’unica attrice italiana presente le cast, Valeria Golino, passa inosservata anche per la solita espressione addolorata che ha sempre quando recita.

Ma poi perché terminare il film con la sequenza del funerale della Kahlo, che aveva deciso di farsi cremare, con quella bruttissima inquadratura del letto avvolto dalle fiamme sul quale si intravede il corpo che dovrebbe essere quello della pittrice?

3/10

Esempi di tableaux-vivant:

“Autoritratto con capelli tagliati” (1940) di Frida Kahlo e Selma Hayek nel film “Frida”



“Autoritratto con scimmia” (1938) di Frida Kahlo e Selma Hayek nel film “Frida”

sabato 12 novembre 2005

"Corrispondenza d'amore - Love's brother" di Jan Sardi


Trama: Australia, anni ’50. I fratelli Angelo e Gino, giovani emigrati dall’Italia con gli zii, gestiscono un caffè nel quartiere italiano dove vivono. Entrambi cercano di trovare la fidanzata che fa al caso loro che, per restare legati alle loro radici, deve essere italiana. Angelo in questo modo conosce per corrispondenza Rosetta, una giovane ragazza del sud Italia. Rosetta, dopo aver ricevuto una foto del giovane, ne è subito attratta e acconsente a partire per l’Australia; non sa però che il ragazzo della fotografia non è Angelo ma bensì il più aitante Gino…

Non credo che questo film sia mai uscito nelle nostre sale, nonostante la storia trattata tocchi da vicino quella di molti italiani emigrati lontano dopo la Seconda Guerra Mondiale.

Personalmente ho visto per caso questo film, e il mio atteggiamento all’inizio della proiezione in tv non era uno dei migliori; forse a causa di queste circostanze la pellicola mi è sembrata abbastanza banale.

La storia presenta una trama e un finali scontati dove l’amore deve trionfare sempre e comunque; gli attori non sono pessimi anche se da soli non riescono a rialzare la qualità del film, che sembra essere ricalcato sui soliti filmetti sentimentali.

Anche se la domanda di base del film è «Due persone che non si sono mai viste, si possono innamorare l’una dell’altra?», non le si può però trovare un riscontro o una risposta nel corso della storia, perché i due ragazzi si erano già visti reciprocamente in fotografia.

Rosetta dice, dopo aver scoperto lo sbaglio in cui è incappata, che si è innamorata del “fratello dell’amore” associando una mente, una psicologia al ragazzo sbagliato, basandosi sulle lettere che riceveva dal fratello che in realtà doveva sposare.

Riassumendo questo contorto giro di parole: Rosetta si è innamorata del cervello di Angelo (l’amore) ma prova attrazione fisica per il corpo di Gino (il fratello del suo amore).

Se dovessimo stare legati alla realtà dei fatti, Rosetta a quel punto non si potrebbe sposare con nessuno dei due, perché desidera un uomo che non esiste, ma - COLPO DI SCENA - la ragazza continua imperterrita a sognare di passare la sua vita al fianco di Gino, e Gino (a cui probabilmente era scattato l’ormone…) contraccambia i sentimenti della giovane.

Il finale lo si può dedurre facilmente.

Se volete saperne di più su questo film sappiate che ne esiste anche un sito Internet in cui il regista commenta la sua opera in modo talmente convincente che farebbe pensare allo spettatore di aver visto la pellicola sbagliata o ad uno scambio di “pizze” durante la proiezione.

Anche per questo film ho una domanda: chi rappresenta il pittore vagabondo? Perché io ancora adesso non l’ho capito.

2/10 (per l’originalità della storia)

6½/10 (per l’interpretazione degli attori)

venerdì 11 novembre 2005

"Monster's ball, l'ombra della verità" di Marc Forster


Trama: Hank Grotowski lavora come guardia carceraria in un penitenziario della Georgia; memore della tradizione famigliare (anche suo padre lavorava in quel carcere) cerca di convincere il giovane figlio Sonny ad intraprendere la stessa carriera. Sonny però capisce di voler fare altro nella vita dopo aver assistito alla sua prima esecuzione, un uomo di colore accusato di omicidio, e i rapporti col padre, già difficili in precedenza, peggiorano ulteriormente fino al suicidio del ragazzo. Hank dopo un periodo cupo e depresso conosce per caso Leticia, una giovane donna di colore, della quale si innamora ricambiato.

La prima caratteristica negativa che salta agli occhi allo spettatore è il pessimo doppiaggio: sentire recitare Billy Bob Thornton con una voce molto vicina a quelle usate per doppiare telefilm di bassa categoria è ridicolo e fastidioso; e non sono ancora riuscita a capire come abbia fatto Halle Berry a meritarsi un Oscar come miglior attrice per un film che è piuttosto banale.

La storia è trita e ritrita, soliti colpi di scena verso un finale che non credo lasci speranza per un “e vissero felici e contenti”, dopo una lunga sequenza di sfighe che colpiscono sia la famiglia Grotowski che quella di Leticia.

Assolutamente inutili le scene di sesso tra Hank e la prostituta frequentata occasionalmente anche dal figlio, dove l’“attrice” in questione appare per sole due volte nel corso dell’intera pellicola e sempre completamente nuda. Complimenti per il coraggio.

Eccessivamente lunga invece la prima scena di sesso tra Hank e Leticia, ripresi da più angolazioni (per dare una visuale migliore dell’amplesso allo spettatore, forse?) in cui per più di tre minuti si sprecano gemiti, urla, movimenti pelvici e quant’altro.

Il tema trattato da questa pellicola non è il razzismo, come si potrebbe pensare all’inizio, ma la difficoltà dei rapporti tra le persone e l’incomunicabilità tra un genitore e un figlio (Leticia e il figlioletto; Hank - Sonny; Hank - suo padre; il figlio di Leticia - suo padre); temi che non sono però trattati adeguatamente, visto anche che a stento li si individuano dalle prime battute.

Un brutto film quindi, penalizzato anche dallo scarso impegno dei doppiatori italiani.

È sicuramente un film da non vedere.

E se qualcuno mi spiegasse anche il significato di quel titolo (“Il ballo del mostro”) gliene sarei grata.

4/10

giovedì 10 novembre 2005

"Ti ricordi di Dolly Bell?" di Emir Kusturica


Trama: Sarajevo, anni ’60. Il sedicenne Dino sogna l’Italia fortemente ostacolato dal padre, comunista convinto, che odia tutto ciò che proviene dall’Europa. La monotona vita di Dino cambia radicalmente con l’arrivo della giovane prostituta Dolly Bell. Fa da colonna sonora la canzone “24.000 baci” cantata dall’idolo di Dino: Celentano.

Opera prima di Kusturica con la quale si è fatto conoscere anche in Italia e grazie alla quale ha vinto molti premi cinematografici.

La storia di Dino racchiude in se tutti i temi e gli elementi che ricorreranno poi in tutte le successive opere di Kusturica; è forse questa la caratteristica che rende a volte scontati i suoi film: una volta visto uno, gli altri si sa più o meno come andranno a finire e di cosa tratteranno; inoltre la lentezza rende a tratti noioso il film.

I temi trattati quindi sono i soliti: la visione del comunismo come salvezza per l’umanità è rappresentata dalla figura del padre di Dino, che costringe tutta la famiglia a estenuanti riunioni di partito in piena notte e che cerca di inculcare in Dino i concetti base della sua ideologia.

Una vita fatta di espedienti, piccoli furti, vissuta ai margini della città in una baracca, in attesa del permesso di occupare un appartamento in pieno centro fornito di tutti i comfort a imitazione di quelli che vanno di moda in Europa.

I pomeriggi passati a suonare con gli amici in un complessino rock sovvenzionato dalla “Casa del popolo”, sorta di circolo culturale per giovani dove alla sera vengono trasmessi anche film osé: uno su tutti “Europa di notte” di Blasetti dove figura l’attraente spogliarellista Dolly Bell.

La Dolly Bell del titolo è invece una giovane coetanea di Dino, che il ragazzo conosce per caso e che egli ospita nella piccionaia sopra casa per aiutare il malavitoso del quartiere in attesa che trovi alla ragazza una “sistemazione” migliore.

I due ragazzi finiscono per innamorarsi, ma la vita sognata da Dino non potrà avverarsi: la realtà gli apre bruscamente gli occhi quando capisce che Dolly Bell è solo una prostituta e che non potranno mai stare insieme, infatti i due vengono separati dal protettore della ragazza (né Dino né noi sapremo mai il vero nome della giovane), e il padre di Dino muore dopo una breve e dolorosa malattia.

Dino è costretto così a crescere in fretta, ad abbandonare gli amici e le scorribande pomeridiane, il complessino rock che lo faceva sembrare già proiettato verso l’Italia e a lasciare la baracca in cui è cresciuto: finalmente il permesso per l’appartamento in città è arrivato, ma in un certo senso è ormai troppo tardi.

6½/10

mercoledì 9 novembre 2005

"Tre metri sopra il cielo" di Federico Moccia


Trama: Step e Babi si conoscono per caso, dopo una prima diffidenza reciproca dovuta anche all’atteggiamento aggressivo di lui iniziano a frequentarsi. E nulla sarà più come prima.

Step ha quasi vent’anni, è un teppista, un violento, non studia, non ha un vero rapporto con i genitori e passa le giornate con gli amici divertendosi con metodi non troppo legali, sfrecciando sulla moto a 200 km all’ora, picchiando e rubando (nonostante la sua famiglia sia fin troppo benestante).

Babi, anche lei figlia di ricchi, pensa solo ad aggiornare il suo guardaroba con i capi più alla moda, va molto bene a scuola (ma non certo per propri meriti), è una ragazzina perfetta ma viziata.

I due giovani si incrociano ad un semaforo rosso nel centro di Roma e da quel giorno le loro vite cambiano completamente.

Sono Romeo e Giulietta del nuovo millennio, quindi, ma vuoti e stereotipati; i maschi trasudano violenza, e per le loro bravate non verranno mai puniti, soprattutto Step che anni prima venne assolto dall’accusa di pestaggio nei confronti di un uomo. L’assoluzione assicurata non credo sia un messaggio adatto da inculcare nelle menti dei ragazzini a cui il romanzo è destinato, così come l’atteggiamento protettivo dei genitori di Babi nei confronti della figlia nel momento in cui sta per essere espulsa dalla prestigiosa scuola: i genitori si precipitano in presidenza e pagano per mettere a tacere tutto e “risolvere” il problema (“Il bello delle scuole private è che tutto si può risolvere facilmente”, pag. 244).

Tutti questi elementi hanno creato attorno al libro un mito e tutti i giovani dai tredici ai vent’anni hanno sicuramente questo volume che campeggia nelle loro camerette; la frase “Io e te… tre metri sopra il cielo” è scritta anche sui muri del mio paese sperduto nella campagna lombarda; il film tratto dal libro ha dato una ricca carriera all’attore Riccardo Scamarcio che interpreta Step; ma sicuramente quello che ci ha guadagnato di più è stato Moccia, che a botte di 10 € a volume, ha trovato anche il tempo di ristampare il libro nella sua versione originale scritta negli anni ’80, dove Babi è sicuramente una “sfitinzia” e Step un “paninaro”. Costo della prima versione? 15 €.

Ma sono davvero questi i valori dei giovani d’oggi descritti dall’autore? Evidentemente sì, perché come si spiegherebbe altrimenti l’enorme successo del libro? Se Moccia avesse scritto il contrario di tutto questo, nessuno avrebbe comprato il suo romanzo.

Che tristezza.

3/10

P. S.: Da notare che la prima parte del libro segue alternativamente le vicende dei due in modo cronologico, ma contando i giorni risulta che una settimana ne dura nove.

lunedì 7 novembre 2005

"Una relazione" di Carlo Cassola


Trama: Mario è costretto per lavoro a spostarsi spesso in treno ed è in uno di questi viaggi che rivede Giovanna, una giovane ragazza con cui aveva avuto anni prima un’avventura. La curiosità di Mario lo spinge a riprovare a riallacciare una relazione con la giovane, la quale prova ancora qualcosa per lui anche se è a conoscenza del suo matrimonio e del figlio che ha appena avuto dalla moglie.

Carlo Cassola è il mio autore italiano preferito, apprezzo la sua capacità nel raccontare con semplicità gli avvenimenti anche più secondari delle vite dei suoi personaggi dandogli però sfumature che altri scrittori non riuscirebbero a dare facendo passare così quegli avvenimenti, descrizioni, sentimenti e storie assolutamente banali.

Quello che infatti mi è piaciuto molto di questo romanzo è stato il modo in cui ci è raccontata la cronaca di un amore fra due persone che a prima vista sembra non doverci trasmettere nulla o poco.

Mario è un uomo che in apparenza sembra essere soddisfatto della propria vita, ma nel proseguire la lettura del romanzo si scopre che non ha un buon rapporto con la moglie ma cerca di tenere nascosto quello che pensa veramente per non turbare quella parvenza di felicità; Giovanna è una ragazza sola, ormai sfatta dalla vita e invecchiata troppo presto anche a causa dei suoi sbagli giovanili, trova però in Mario la persona che è in grado di aiutarla a non sentirsi più ai margini di una società che la condanna additandola come una poco di buono precludendone così una vita come moglie e madre.

Le esistenze dei due protagonisti sono arricchite da analisi psicologiche che ci spiegano approfonditamente le motivazioni di un gesto, di una decisione presi dai due giovani.

In Mario spicca la tenerezza che pian piano fa strada nel suo arido cuore che inizialmente aveva deciso di non aprirsi a Giovanna che vedeva come una semplice preda, una scappatella per dimenticare per poche ore il tedio che lo aspetta a casa.

In Giovanna ho trovato un esempio di ragazza che, anche se sul finire dell’adolescenza si era lasciata andare al divertimento condiviso con i ragazzi, oggi confrontandola con le ventenni del 2000 fa parte di un altro mondo, di un’altra dimensione; Giovanna sa che non potrà mai avere una storia duratura con Mario, ma si lascia andare decisa a provare amore per la prima volta nei suoi ventiquattro anni.

Quello che traspare però in quasi tutti i romanzi di Cassola è la tristezza, l’abbandono finale a un destino che in apparenza sembrava serbarci altro ma che alla fine ci costringe a guardare la dura realtà, dopo aver provato vera felicità.

Nel caso di Giovanna e Mario, la ragazza decide di troncare la loro relazione conscia del fatto di non poterlo avere per sempre al suo fianco, ormai lei è una donna matura e sa di esserne solo l’amante e che non potrà mai contare niente nella sua vita anche se lui contraccambia i suoi sentimenti; Mario lascia andare per sempre Giovanna rassegnandosi a riprendere la sua solita routine perché è così che anni prima aveva scelto sposando sua moglie.

A parte la tristezza di fondo, questo romanzo è indimenticabile per i piccoli gesti teneri e affettuosi che i due giovani si scambiano nel corso della loro relazione, due su tutti: Mario che cerca di esprimere quello che prova per Giovanna e che ha sempre cercato di nascondere facendole dei piccoli regali e Giovanna che guarda Mario andare via in treno e che lo saluta con un cenno della mano mentre la nebbia invernale la avvolge tristemente.

9½/10

domenica 6 novembre 2005

"Uccelli di rovo" di Colleen McCollough



Trama: Nuova Zelanda, primi del ‘900. La famiglia Cleary, composta da un’infinità di figli maschi e una sola femmina, cerca di sopravvivere gravando completamente sulle spalle del capofamiglia e dell’unico figlio in età da lavoro. Ma un colpo di fortuna fa sì che i Cleary si ritrovino alquanto benestanti ed unici eredi di un ranch australiano. Lì la piccola Meggie, trasferitasi con tutta la famiglia, conoscerà Padre Ralph.

Il lungo romanzo, diventato famoso e acclamato da tutte le casalinghe d’Italia grazie allo sceneggiato che alla fine degli anni ’80 fu trasmesso in tv, è esattamente quello che ci si spossa aspettare dai libercoli esposti al supermercato sulle cui copertine figurano donne discinte e uomini dal petto villoso.

Confesso di aver avuto vergogna nel farmi vedere con questo libro in mano; partendo già prevenuta nei suoi confronti non sono poi riuscita a scovare nulla di buono in tutto il romanzo, se non le dettagliate descrizioni della fauna e la flora che dominano il paesaggio australiano e quelle relative alle disastrose condizioni di vita in quella parte di mondo nei primi anni del Novecento; per fortuna sono arrivate poi le sorelle McLeod su Raidue a far credere al mondo intero che durante la tosatura delle pecore ci si possa presentare con rossetto e camiciole a fiori…

La travagliata storia d’amore tra Meggie e Padre Ralph ha degli intrecci paradossali: lei, vistasi respinta dal prete, decide di sposare un manovale del suo ranch e al momento del suo primo parto, in cui rischia di morire, una sorta di sesto senso degno di Giucas Casella fa si che Padre Ralph accorra al suo capezzale partendo da Roma per -colpo di scena!- arrivare dalla sua amata nell’esatto istante in cui il parto viene portato a termine. Patetico.

Questi e altri ridicoli episodi, che lascio alla vostra lettura per meglio assaporarne il divertimento, fanno da colonne portanti al romanzo in cui si susseguono anche le storie di altri personaggi secondari principalmente di sesso femminile.

Gli uomini sono visti infatti come accessori e non contribuiscono alla storia anche perché, non avendo nessun tipo di attrazione per l’altro sesso, sembrano essere degli ibridi asessuati, non hanno una relazione sentimentale da raccontare e la regina indiscussa di tutto il tomo può rimanere la leggiadra Meggie.

Al termine del romanzo nemmeno un uomo resta in piedi, neanche Padre Ralph stroncato da una inaspettata rivelazione; da questo punto di vista il libro mi sembra un po' troppo femminista.

E la storiella dell’uccello che canta una sola volta nella vita per poi suicidarsi facendo harakiri sui rovi, che dire? Bah…

4/10

sabato 5 novembre 2005

"Angelica e le notti di Versailles" di Anne e Serge Golon


Trama: Angelica è riuscita a tornare a Versailles, ma il suo nuovo consorte tenta in tutti i modi di precluderle un’amicizia con il Re e la vita di corte. Ma ella, donna astuta e dalle mille risorse, riesce a tramutare l’odio del marito in evidente affetto nei suoi confronti. Non sa però che a questo periodo felice si affiancheranno ben presto una serie di disgrazie (quinto volume della serie).

Che crudeli gli editori che hanno deciso di troncare il romanzo nel momento clou in cui Angelica sta per prendere una decisione importante! Ma per non infierire oltre passo ai complimenti per Anne Golon: in questo romanzo è notevole la sua capacità di narrare fatti storici e di pura fantasia come se essa stessa fosse stata presente agli eventi raccontati, in particolare per la figura del Re Sole e le lunghe descrizioni degli ambienti di corte, i balli, le usanze; emerge in questo modo anche il lungo lavoro svolto dai due scrittori per rendere il più autentico possibile il romanzo.

Ho apprezzato anche un po’ d’umanità aggiunta al personaggio di Angelica che, travolta da una serie di disgrazie, riesce finalmente a mostrare il suo lato più debole che, con questa intensità, non si era visto nemmeno quando aveva assistito alla (presunta) morte di Goffredo.

Lenta la prima parte del romanzo, la seconda invece l’ho preferita, anche perché si parla dell’amore tra Angelica e Filippo, il suo nuovo consorte.

Peccato che i seguenti quattro romanzi della serie non sono ancora riuscita a trovarli, e anche se ho tutti i restanti preferisco non leggerli per non confondere la cronologia esatta degli avvenimenti.

9/10

mercoledì 2 novembre 2005

"Claudine se ne va" di Colette

Trama: la giovane Annie annota la sua vita e quella di chi la circonda nel suo diario; ci vengono raccontate così anche le vicende di Claudine.

Questo volumetto, che è stato spacciato come un degno finale alle vicende della nostra eroina Claudine, non è nient’altro che lo scialbo diarietto di una certa Annie, ragazza che frequenta per vie traverse Claudine e Renaud.

Per ben 70 pagine seguiamo gli sproloqui e i patemi d’animo di questa giovane sposa sottomessa a tutti gli effetti al marito despota Alain.

È curioso notare come tutte le caratteristiche del marito di Colette siano racchiuse nella figura di Alain, al quale la mogliettina si prostra chiamando se stessa “vostra schiava”.

La figura di Annie non ha nessuna delle attrattive che invece Claudine aveva; Annie è assolutamente un personaggio debole e senza spina dorsale.

Solo nelle ultime pagine Annie si sveglierà dal letargo, ma è troppo tardi: ormai il lettore, sentendosi abbandonato dalla perfetta Claudine, odia profondamente questo suo surrogato in chiave moscia.

Claudine e Renaud appaiono e scompaiono fra le righe del diario come semplici personaggi di seconda mano, fino ad abbandonare definitivamente la scena verso il finale del romanzo.

Gli ultimi capitoli, quando ormai Claudine “se ne è andata”, sono incentrati su Annie e sul rapporto di amore e odio tra lei e il marito. Sono però paginette di poca importanza come tutte le altre.

4/10

"Claudine sposata" di Colette

Trama: Francia, Parigi 1903. Claudine e Renaud fanno il loro ritorno a Parigi al termine del loro lungo viaggio di nozze. Claudine ora si appresta a riportare nel suo diario la sua vita di giovane sposa e padrona di casa.

Dopo un primo entusiasmo, come è facile notare in tutti coloro che si apprestano ad iniziare un nuovo periodo della loro vita, Claudine si trova a dover fare i conti con i lati negativi del carattere di Renaud: conosciutolo meglio ella infatti si accorge di aver sposato un uomo che non riesce, e non ha nessuna voglia, di dominarla. Claudine cerca in un primo momento di far ingelosire il marito raccontandogli le più scabrose esperienze avute a Montigny e costringendolo a prendere una definitiva posizione di autorità nei suoi confronti; Claudine si deve però rassegnare, i suoi tentativi non scalfiscono minimamente la placidità del marito.

La pacatezza e l’indifferenza di Renaud faranno sì che l’iniziazione alla trasgressione e al vizio di Claudine avvengano in totale permissività e anzi sarà lo stesso Renaud ad incitare la moglie.

Durante uno dei ricevimenti tenutisi a casa dei due sposi, Claudine conosce l’avvenente Rezi, sposata ad un uomo fiacco e senza interessi.

Le due donne si sentono subito attratte l’una dall’altra, sarà però la più matura ed esperta Rezi a fare il primo passo; il loro rapporto con il passare del tempo diventa sempre più esigente e l’avido desiderio che cresce in entrambe, spinge Claudine a chiedere al marito dove lei e la compagna si possano appartare. Renaud, minimamente sconvolto dalla richiesta di aiuto, mette a disposizione delle due amanti un appartamento per i loro incontri amorosi.

Claudine sarà però punita per essersi abbandonata nelle braccia di una donna: la storia con l’amante finirà in tragedia dopo che Claudine scopre il marito nell’appartamento degli incontri con la stessa Rezi.

Claudine non è però disposta a dividere il marito con un’altra donna e lascia disperata Parigi per rifugiarsi a Montigny, nella sua casa d’infanzia, dove l’aspettano il padre (che è tornato sui monti deluso di Parigi), la governante e i due fedeli gatti.

Ancora una volta la natura influisce positivamente su Claudine e uno scambio epistolare riesce a far riavvicinare i due sposi in un lieto fine.

Claudine ha pagato cara la sua relazione omosessuale, così come Renaud ha capito di aver lasciato troppo libera la moglie e di aver fatto troppo egli stesso i suoi comodi.

In questo romanzo l’elemento autobiografico è molto presente e lo si può notare dalla figura di Claudine e Renaud e dalle loro vicende coniugali.

Claudine è un alter ego di Colette, così come Renaud lo è di Willy; nella vita reale però i due si lasciano definitivamente dopo che Colette ha trovato in una donna quello che Willy non era stato in grado di darle e che si può riassumere in una sola parola: libertà, elemento invece che Renaud aveva dato in abbondanza a Claudine.

8/10

martedì 1 novembre 2005

"Claudine a Parigi" di Colette


Trama: Francia, Parigi 1901. Claudine è costretta, per esigenze lavorative del padre, a trasferirsi in città. Riuscirà a sopravvivere lontana da Montigny e ad abituarsi all’alta società in cui farà il suo debutto?

Proseguono le avventure di Claudine riportate da lei stessa nel suo diario.

Trasferitasi a malincuore a Parigi, sempre accompagnata dalla fedele gatta Fanchette, Claudine stenta ad abituarsi alla nuova sistemazione e soprattutto alla caotica città che circonda con il suo traffico, i rumori e gli odori il suo nuovo appartamento che condivide con il padre e la governante.

Questo nuovo modo di vivere, lontano dal verde, dalla natura e dalla libertà, causa a Claudine una lunga malattia, protratta per mesi, che la renderà nel momento della guarigione ancora più restia ad accettare la città e le decisioni legate al lavoro prese dal padre.

Rimessasi completamente dalla malattia Claudine, spinta dal padre che la vuole vedere felice, fa il suo ingresso nell’alta società parigina accompagnata dallo zio Renaud e dal cugino Marcel.

Il vizio è ancora presente nelle vita di Claudine: la città è per lei stessa fonte di corruzione e abitata da individui poco raccomandabili nonostante frequentino gli ambienti più alti; inizialmente infatti cerca di rimanere distaccata ogni qualvolta lo zio e il cugino la introducono in un ambiente nuovo.

Ma l’amicizia con Marcel le rende più piacevole il soggiorno a lunga scadenza in città e il casuale incontro con Luce le fa credere momentaneamente di essere ritornata al suo caro paese natio.

Il colloquio fra le due ragazze però rivela a Claudine la vera natura di Luce: la giovane infatti si trova a Parigi come amante e mantenuta di un suo lontano parente, incontrato in città dopo che questa era scappata dalla scuola di Montigny dove stava terminando gli studi.

Il ruolo vergognoso di Luce nella vita dell’anziano e viscido zio, dedito a pratiche sessuali di dubbia moralità, inducono Claudine a tagliare definitivamente i ponti con l’amica e a respingere ancora una volta le sue insistenti avance.

Ma anche Marcel è votato al vizio, infatti ha una relazione con un suo giovane amico; questo legame omosessuale spingerà Renaud ad allontanare Claudine dal figlio, in quanto vede quest’ultimo come un cattivo esempio per la nipote.

Il rapporto fra Renaud e Claudine, fatto di lunghi appuntamenti che lentamente diventano incontri velati di sentimento e romanticismo, si tramuta in amore.

I due, al termine del romanzo, decidono di sposarsi sotto la benedizione del padre di Claudine.

Sono di nuovo presenti gli elementi ricorrenti della vita della protagonista: il rapporto intenso e profondo che la lega a Montigny sfocia in un male che la divora lentamente, male che cesserà nel momento in cui essa cerca di accettare, anche se controvoglia, la nuova situazione; le è ancora vicina la gatta Fanchette che si appresta anch’essa, come la giovane padrona, a fare il suo ingresso nella vita adulta: diventerà madre di un piccolo gattino che rischiarerà ulteriormente il soggiorno cittadino di Claudine.

Anche questa volta Claudine sfugge alle perversità e, anche rimanendo un animo inquieto e malizioso, passa nella vita adulta toccando le tappe più consone per una ragazza di buona famiglia ligia all’etica del tempo.

8/10