venerdì 29 dicembre 2006

"Happy mania" n. 7, "Nana" n. 27-28

"Happy mania" n. 7: un nuovo taglio di capelli può davvero dare una svolta al piattume della propria vita? Lo pensa, ovviamente a torto, Shigeta che in questo numero continua l’estenuante ricerca di un paio di ammennicoli [sì, proprio quelli] di suo gradimento.
Oltre a questo, buona parte dell’episodio è però incentrato sulle vicissitudini sentimental-sessuali dell’amica Hiromi e del suo (ex) marito abbandonato poco dopo la fine del pranzone nuziale.
Shigeta infatti dimette per un attimo le vesti della martire in cerca d’affetto per risolvere i problemi di coppia della sua amica, affrontando la questione con più razionalità, spirito fraterno e un pizzico di commozione. Poi però tutto torna come prima.
Nel frattempo il povero Takahashi, causa puntura d’ape con annesso shock anafilattico, ha perso la memoria (!) e vagola per le vie del Giappone in cerca di sé stesso mentre viene tallonato da una sfortunata ragazza innamoratasi di lui che, prendendo la palla al balzo, si fa passare per la sua fidanzata.
Shigeta tutto questo lo ignora e pensa di aver trovato finalmente (?) l’ammennicolo della sua vita, ritirando direttamente dalle mani di un “adone” un manoscritto per la casa editrice per cui lavora.
Ma noi sappiamo benissimo che qualcosa andrà storto: dopo tutto ci sono ancora quattro numeri prima del gran finale, con quali argomenti si andrà avanti sennò fino al n. 11?




"Nana" n. 27-28: l’uscita a distanza ravvicinata di ben due nuovi numeri è stata accolta dalla sottoscritta con un certo entusiasmo, scemato però immediatamente alla vista dei papiri che la Yazawa ci costringe a leggere per seguire le travagliate & sofferte vicende delle due Nana.
Sì, perché continuo tuttora ad avere un rapporto d’amore-odio con questo manga, partito sostanzialmente bene, ma che dal n. 18 - o giù di lì - è diventato un’opera fastidiosa con assurdità sparate a raffica, i cui personaggi sembrano essere affetti indistintamente da seri problemi psichiatrici: cambi repentini d’umore, urla, strepiti, ragionamenti raramente logici, discorsi seri inframmezzati da ridicoli siparietti “pucciosi” che stravolgono il climax crescente che la Yazawa qualche volta riesce a creare. Senza contare i già citati papiri, scritti in ballons talmente minuscoli in cui l’addetto al lettering è capace anche di farci stare l’intera Divina Commedia.

Non ho ancora capito perché continuo a leggere questo manga diventato ormai insostenibile.
Certo è che inizialmente era per l’atmosfera trasgressiva con la quale l’opera della Yazawa era stata presentata, e che mi ricordava la mia adolescenza e i miei trascorsi da “punk” (ma non pensate chissà che, eh...).
Oggi, riprendendo i primi numeri, la storia non mi trasmette più nulla ed è solo infarcita di insipidi episodi in cui il non-sense la fa spesso da padrone.
Ma come detto all’inizio un po’ d’entusiasmo, nel trovarmi in mano un nuovo numero, lo provo ancora; ormai ci sono affezionata a questo manga, anche se capire l’arzigogolata psicologia di ciascun personaggio è lavoro davvero arduo, ancora adesso arrivati al ventottesimo numero.

In questi ultimi due tankobon però ci sono diversi colpi di scena che risollevano l’atmosfera paludosa in cui agonizzava il manga, e che hanno fatto risorgere “l’antico mio impeto” [‘ammazza, epico dire...].
Colpi di scena - che Cecilia ha già fatto notare, io arrivo sempre per ultima :-P - utili per (s)chiarire la fine/scomparsa di Nana Osaki, i lati nascosti del tenebroso Yasu (aaah, il fascino della calvizie *sbav*) e quelli del pirla Daewoo Tacuma (così ribattezzato il farfallone Takumi - scusate ma non sopporto quel personaggio, tenendo conto poi che io avendo i capelli lunghi fino a metà schiena, provo una certa avversione per gli esseri di sesso maschile la cui parte tricotica superi anche di un solo centimetro le orecchie: è risaputo che l’uomo col capello lungo, di spalle, è molto simile a Cugino It). Poi, ritorno con travestimento della storica Misato accompagnato da lacrimevole siparietto in cui rivela la crudeltà dei suoi genitori, rei di aver ammesso di non volere una capra in famiglia [capra = studentessa poco diligente]; scopriamo inoltre che Yuri è perseguitata dalla Yakuza sottoforma di casa cinematografica con la quale aveva firmato un contratto. Embeh? Cazzi suoi, mi verrebbe da dire.
Ren continua a farsi dei bei “righi” di coca sul lavandino dell’hotel a velocità supersonica *swiiiissssh* [osservare n. 27 - cap. 50 - ultima pagina - quinta vignetta]; attitudine alla droga, questa, che non mi fa né caldo né freddo: la Yazawa ha introdotto la tossicodipendenza di Ren in maniera così blanda e di poco rilievo che, alla festa di compleanno di Reira, quando lo vediamo per la prima volta acquistare palesemente della droga, non ne sono rimasta nemmeno un po’ sorpresa.
La gravidanza di Nana-Hachi sembra non essere nemmeno iniziata, dov’è il pancione? E sì che dovrebbe essere già al quarto mese di gravidanza (o forse anche di più!); gli isterismi da donna incinta però ce li ha tutti. E le occupano talmente il cervello che all’arrivo del classico messaggino “Cara, stasera devo lavorare”, invece di insospettirsi, lei digita di rimando “Va bene, ma me lo potevi dire prima” (lo so, non era proprio così, ma è per sintetizzare). Ok, ce la siamo giocata...
Bellissima la sequenza in qui Ren e Reira si ritrovano fra la neve ad osservare il mare, non una parola, solo gesti e silenzio per delle pagine mozzafiato come solo la Yazawa sa disegnare, in cui ti sembra di sentire il gelo nelle ossa e lo scricchiolio della neve sotto i passi; poi giri pagina e rieccoli ‘sti caz... di papiri.

Sono aperte le scommesse sulla scomparsa di Nana Osaki: penso che Ren l’abbia uccisa, e ne ho avuto quasi la conferma nella già citata sequenza con protagonisti lui e Reira nella neve, in cui Ren dice: “Ultimamente provo un desiderio sempre più forte di ucciderla (...) In quel modo diverrebbe finalmente mia per sempre”.
Poi si è anche lui tolto la vita suggellando così il manga con uno shinju [Cecilia insegna]

venerdì 15 dicembre 2006

"Marie Antoinette" di Sofia Coppola (2006)

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Con l’intento di distaccarsi completamente dai tradizionali film in costume, la Coppola (di cui è il primo film che vedo) tenta di rivisitare il tutto con una colonna sonora “agli anni ‘80” pensando che possa bastare per creare un film fuori dai classici canoni.
Ma a parte la bella colonna sonora, composta di brani firmati dai The Cure ai New Order (che mi hanno sempre accompagnato nel mio periodo teen-ager... quanti ricordi...), i titoli di testa e la locandina molto eighties, l’intero film se in un primo momento mi è parso molto innovativo e “cacchio la Sofia ha creato un nuovo genere!”, col senno di poi invece l’elemento che ha scatenato il mio primo parere è unicamente da collegare ai soli tre fattori già citati (colonna sonora, locandina e titoli di testa), perché in realtà la Coppola per quanto riguarda le riprese, la fotografia, ecc... l’ho trovata, sì magnifica, ma molto classica. Stringi, stringi e la minestra è sempre quella.
Immaginatevelo senza audio e troverete l’intero film stupendamente girato (che colori la pellicola e che scenografia!) ma di una noia mortale; quello che fa la differenza è quindi soltanto la colonna sonora che, con le sue sonorità “moderne” con una chitarrina elettrica e via - quando invece ci si aspetta un clavicembalo e una spinetta ad accompagnare le immagini - può trasformare completamente l’intera impostazione del film.
Questo è decisamente un punto a suo favore, ma la Coppola non credo abbia trovato un nuovo modo per illustrare la vita dei reali di turno e per girare un film in costume.
Ma è davvero sorprendente come le immagini, raramente accompagnate da lunghi dialoghi, tutt’al più da brevi botta e risposta, siano amalgamate senza effetti spiacevoli con la colonna sonora alla “Donnie Darko”; è un effetto davvero inusuale che si percepisce ed è per questo, ripeto, che “Marie Antoinette” lo si ritiene diverso.
Diverso però ancora fino a un certo punto, perché non mancano momenti di melodie barocche, ed è come se la Coppola non riesca a staccarsi completamente dai modelli classici, dai manierismi, e continui a cadere nelle tecniche usuali.
Un miscuglio di nuovo e vecchio che resta comunque piacevole, ma urlare al “genio” per questo punto di vista non direi.
E’ invece di gran bravura il lavoro svolto con la macchina da presa, la fotografia, i costumi e la scenografia, in un tripudio di sfarzo e lusso, ma anche semplicità all’occorrenza, che è uno spettacolo per gli occhi.
E per tutto il film c’è poco da capire, ma più da vedere, osservare la vita di Maria Antonietta senza complicazioni di sorta, nella sua monotonia fatta di silenzi (meglio non far sparare cazzate ai personaggi realmente esistiti) e lentezza, resa meno invadente dalla colonna sonora e dal lavoro di regia, e quando è ora di far entrare in scena la Storia il film finisce.

8/10

giovedì 7 dicembre 2006

"Il piacere di Elsie" di Patricia Highsmith

Trama: Elsie, una delle migliaia di ragazze che arrivano a New York in cerca di fortuna, è giovane, vitale, ambiziosa, una specie di calamita che attira gli sguardi di uomini e donne. Ralph Linderman, un solitario e fanatico, se ne innamora. Jack Sutherland, un illustratore di libri, aiuta Elsie a diventare modella e si innamora anch’egli di lei. Per le strade del Village si svolge una lotta invisibile tra Jack e Ralph, tra lucidità e paranoia, classe e volgarità, bene e male.

Il brutto vizio di inventarsi di sana pianta i titoli dei libri stranieri, ha colpito anche “Found in the street” della Highsmith, tradotto in Italia come “Il piacere di Elsie”.
Il titolo originale [che ho tradotto come “Incontrarsi/trovarsi per strada”, correggetemi però se ho sbagliato] è più incisivo, capace di far risaltare fin dalle prime pagine la dinamica dell’intera storia: come gli incroci ed aggrovigli di vie newyorchesi, le vite di tre persone sconosciute, che non hanno nulla in comune l’un con l’altra, sono destinate ad invischiarsi tra loro fino alla fine.
Così come gli incontri decisivi che cambieranno le tre esistenze, anche gli avvenimenti più importanti avvengono sempre ed esclusivamente per strada. Ed è come se oltre ai personaggi principali, ce ne fosse anche un quarto più “astratto”: la città di New York.
Il titolo italiano è inoltre fuorviante perché mette in maggiore evidenza il personaggio di Elsie, personaggio che in realtà vive di “luce riflessa”, nel senso che seguiamo la sua storia solo tramite terzi - che corrispondono ai due protagonisti maschili.
E’ infatti attraverso le vite di Ralph e Jack che scopriamo nuovi aspetti della giovane Elsie, ne seguiamo la maturità e l’ascesa sociale.
Ma la particolarità di questo romanzo, non è tanto la capacità dell’autrice di delineare perfettamente il personaggio di Elise facendo leva solo su due punti di vista differenti, ma quello di analizzare abilmente questi ultimi e di conseguenza esaminare la psicologia maschile.
I veri protagonisti sono quindi Ralph e Jack, due personaggi opposti che si trovano ad amare la stessa donna con due convinzioni differenti: Ralph ama Elsie in modo ingenuo e bigotto, mentre Jack ne è invaghito per la sua bellezza e carica passionale.
Due visioni contrastanti che metteranno in subbuglio fino all’ultima pagina i tre destini incrociati e che sottolineano come sia difficile mantenere un equilibrio dei sensi.

7/10