lunedì 30 gennaio 2006

"Prima dell'alba - Before sunrise" di Richard Linklater (1995)


Chi si chiede cosa possa fare un colpo di fulmine scattato tra due sconosciuti, può scoprirlo guardando questo film, e seguire così la precoce e breve storia d’amore tra due estranei conosciutisi per caso su di un treno che li sta portando verso due vite completamente diverse.
Quello che più mia ha sorpreso è la capacità dei due giovani protagonisti, Celine e Jesse, di aprirsi l’uno all’altra senza remore o vergogne, instaurando così da subito un rapporto di profonda amicizia e amore che difficilmente capita tra due persone che si conoscono da solo poche ore.
I dialoghi tra i due spaziano così dai ricordi ai pensieri più intimi, alla filosofia, alla politica, e molto altro ancora, il tutto dipanato in un unico discorso che inizia in un vagone di un treno e si protrae all’infinito per le vie di Vienna, città in cui i due giovani hanno deciso di passare un solo giorno insieme.
La macchina da presa segue Celine e Jesse senza intromettersi nella coppia che si va formando, sequenza dopo sequenza, segue solamente le loro ombre ed è raro che i due vengano ripresi singolarmente: sono infatti quasi sempre ripresi insieme nella stessa inquadratura, anche quando è solo uno dei due a parlare in una sorta di monologo in cui l’altro non interviene.
La bravura di Julie Delpy e Ethan Hawke la si nota subito dalle prime battute, entrambi hanno una grande capacità di rendere il tutto spontaneo e spensierato, e lo dimostrano con la gestualità tipica della realtà, non è forzata, sono completamente immersi nella parte.
Un po’ forzato però è il finale, che a parer mio sarebbe stato meno malinconico eliminando le scene che mostrano ogni luogo di Vienna che ha visto i due giovani avvicinarsi sempre di più, inframmezzate dai primi piani di Celine e Jesse che si trovano orami separati l’uno dall’altra.
Davvero troppo infelice. Meglio sarebbe stato mostrare solo loro due senza inserzioni di alcun tipo.
Finiti i titoli di coda, il film mi ha lasciato addosso un po’ di malinconia, perché il vedere i due giovani dividersi (per sempre?), nonostante si siano dichiarati amore, è triste... ma forse un colpo di fulmine del genere non doveva che finire così.

9/10

domenica 29 gennaio 2006

"Match Point" di Woody Allen (2005)


“Match Point” si discosta molto dalle precedenti pellicole di Woody Allen: lui questa volta si è fermato dietro la macchina da presa, e con lui sono escluse anche tutte le nevrosi e le sedute psicanalitiche del cittadino medio americano, non ci sono più i grattacieli e il traffico di New York, ma la placida Londra fatta di prati sonnacchiosi ed esclusivi club privati.
Non per questo però l’ultimo film di Allen è da ritenersi poco riuscito, anzi, credo che attraverso “Match Point” Allen sia riuscito a dare un altro lato di sé al pubblico, che prima camuffava dietro la sua ironia e il suo cinismo.
Da ridere qui c’è poco, non è un’altra commedia, ma un film psicologico.
E basta.
Cosa c’entra il “thriller”? Hanno presentato questo film come un thriller, ma come si fa a definirlo tale se quel genere cinematografico subentra solo negli ultimi dieci minuti di film, dove tra l’altro lo spettatore sa già tutto? Questo è un film in cui è la passione a farla da padrone, così come la psicologia dei protagonisti e come essa viene stravolta dall’arrivo della passione, non dell’amore ma della passione, perché le paroline “Ti-amo” non sono mai pronunciate sul serio.
Per tutto il corso del film Allen analizza e psicanalizza (quindi il vecchio Allen non è sparito del tutto) i due personaggi principali, e attraverso loro mostra come la passione può far agire e scombinare anche l’uomo più tranquillo del mondo.
Il film può risultare lento e ripetitivo, alcune sequenze, infatti, iniziano e/o si chiudono con la stessa dinamica dei fatti: ad esempio il solito concerto di musica classica in cui i personaggi sono ripresi nel loro palchetto privato e Chris, il protagonista, che esce da un lussuoso negozio del centro londinese (che "simboleggia" la totale omologazione alla classe sociale di cui ora fa parte) e davanti al quale sistematicamente farà un incontro che porterà ad un ulteriore evolversi della storia.
Ma la lentezza rispecchia la vita di Chris, la noia e la routine in cui è caduto dopo che si è adattato alla classica vita dell’upper class londinese, fatta di noiose partite a scacchi, battute di caccia, i soliti fine settimana a teatro e un lavoro da dirigente.
Ecco, da questo punto di vista Chris non ha avuto molta fortuna, ma alla fine del film ne avrà eccome!
La fortuna è un altro elemento importante del film, dichiarato fin dalle prime immagini e simboleggiato da una pallina da tennis e dal titolo stesso del film (ma ormai ‘sta storia della pallina la sa anche chi il film non l’ha ancora visto...).
Ma alla fine "grazie" alla tanto agognata fortuna, Chris sarà costretto a recitare per tutto il resto della sua vita, cosa che invece smaniava di fare Nola, interpretata dalla bravissima Scarlett Johansson.

9/10

P. S.: Chris: «Dimmi il numero! Dai, dimmi il tuo numero!».
Nola: «56887031599966245537100».
Chris: «Ok, ciao!».

Mi spiegate come ha fatto a ricordarselo a memoria?

sabato 28 gennaio 2006

"Maria full of grace" di Joshua Marston (2004)


Nonostante abbia riscontrato spesso l’approvazione unanime per la bravura della giovane Catalina Sandino Moreno, che interpreta il ruolo della protagonista, non sono però dello stesso parere né per la bravura dell’attrice né per l’alta qualità del film.
La regia è mediocre e quasi assente, gli attori sembra che vengano spesso lasciati soli davanti alla macchina da presa con la conseguenza di vederli ripetere a papera le battute del copione.
La Sandino è a volte troppo finta, come nella sequenza in cui scoppia in lacrime davanti alla sorella della sua “amica”, non mi sembra quindi che il premio vinto a Berlino se lo sia così meritato.
Lo svolgimento della storia ha in alcuni punti dei picchi che sembrerebbero portare chissà dove oppure verso il termine definitivo del film, invece la vicenda prosegue con degli intrecci un po’ paradossali.
Non c’è dubbio che il tema trattato è molto attuale e viene affrontato, o almeno si è cercato di affrontarlo, nel modo più vero possibile anche se con scarsi successi (poco impegno, direi).
Nemmeno è sufficiente la seconda parte del film, che si svolge negli Stati Uniti, cruda e deprimente in cui Maria non sembra essersi allontanata molto dal suo paese natio (dato che viene ancora emarginata e trattata di conseguenza): dovrebbe essere la parte portante di tutta la pellicola, in cui ci viene meglio illustrato il desiderio di Maria, di riscattarsi e di cambiare vita, invece è proprio qui che casca tutto, intrecci poco credibili (come già detto in precedenza) e pathos scadente.
Il finale credo che sia la parte riuscita meglio, anche se si sarebbe potuta sprecare qualche battuta in più, ma evidentemente il regista si era già troppo concentrato sui dialoghi precedenti (insignificanti).

6/10

giovedì 26 gennaio 2006

"Adèle H., una storia d'amore" di François Truffaut

Soggetto non originale anche per questo film di François Truffaut che si è ispirato alla storia di Adèle figlia poco conosciuta di Victor Hugo, oscurata dalla sorella più “famosa” Léopoldine tragicamente annegata in giovane età.
Ecco il perché di quel cognome tacciato nel titolo, di cui si legge solo l’iniziale; il trascrivere il cognome per intero avrebbe di nuovo spinto l’attenzione sul famigliare più noto, in questo caso il padre Victor.
Il film ripercorre solo la vicenda di Adèle dal momento in cui parte per l’Inghilterra all’inseguimento (è proprio il caso di dirlo…) di un giovane ufficiale che vuol far diventare suo a tutti i costi. Victor Hugo infatti non verrà mai mostrato, lo si vedrà solo di sfuggita (anche perché secondo me sarebbe stato veramente di cattivo gusto assumerne un sosia…).
Ma Truffaut, nonostante si sia basato sui diari di Adèle (scritti in codice e mai pubblicati in Italia), si è molto discostato dalla verità aggiungendo particolari e camuffandone altri.
Ad esempio Adèle al momento dei fatti non ha vent’anni, come si sostiene nel film, ma ne ha più di 30, il che cambia in parte la situazione: non è una giovane fanciulla in fiore che insegue il suo sfuggente innamorato, ma una donna che sa decidere per sé stessa e che vista l’età, secondo me, ha timore di rimanere “zitella”.
Le lettere inviate al padre, in realtà erano indirizzate al fratello e alcuni scritti del suo diario che vengono citati con voce fuori campo sono stati inventati di sana pianta dal regista.
Allora mi chiedo, che senso ha ispirarsi ad una storia vera quando in realtà il tutto viene stravolto dando così una visione errata della vicenda allo spettatore?
Truffaut in un’intervista relativa al film, sostenne che volle girare questa pellicola per riscattare la povera Adèle dal dimenticatoio in cui era precipitata e da cui nemmeno la pubblicazione postuma dei suoi diari era riuscita a risollevarla.
Ma in questo modo le si dà una rivincita falsata e parziale, in cui gli elementi aggiunti o modificati rendono tutta la vicenda una storia romanzata dove l’amore la fa troppo da padrone.
Il film nonostante tutto è comunque pregevole, grazie anche all’interpretazione di Isabelle Adjani che è riuscita a rendere quasi palpabile l’incontrollata passione che Adèle nutre per l’ufficiale Pinson e che l’ha portata alla pazzia. Adèle infatti morirà sola in un manicomio all’età di 85 anni.
Mi ha molto impressionata l’ultima sequenza in cui Adèle, inseguito Pinson pure alle Barbados, viene additata e quasi derisa, ormai in preda alla follia, dagli abitanti dell’isola.
Questa sequenza mi ha molto ricordato la penultima di “Lezioni di piano” di Jane Campion in cui Ada si accinge ad abbandonare la casa del marito e al cui uscio la gente la guarda incuriosita sussurrando “Poverina…!”.

7/10

mercoledì 25 gennaio 2006

"Eccezzziunale veramente, capitolo secondo... me" di Carlo Vanzina (2005)


Schiacciata da giovani bevitori di birra alle 22:40 di un lunedì sera, spero che con l’inizio dei titoli di testa si cominci a sentire un po’ di silenzio in sala.
E infatti con le prime note del brano scritto più di vent’anni fa da Detto Mariano, tutti ammutoliscono.
I lunghi titoli di testa servono infatti solo per permettere agli spettatori di riascoltare la canzone che nel 1982 ha segnato nell’Olimpo del trash Abatantuono e il suo personaggio “terruncello”.
In questo seguito Abatantuono si divide ancora in tre, rappresentando il cittadino italiano del nord e del sud, con tre storie che non hanno nulla in comune.
Fa da collante alle tre vicende, la voce fuori campo di un narratore gasato simile a quella degli speaker radiofonici (e guarda caso uno degli sponsor, presentato con chiara pubblicità occulta, è proprio una stazione radio…).
Tralasciando Abatantuono, che ha già dimostrato di essere un attore capace di destreggiarsi anche con ruoli non solo legati alla comicità italiana, e Sabrina Ferilli (di cui mi chiedo: “Ma che cosa le ha fatto il chirurgo plastico???”), il resto del cast è composto da redivivi attori degli anni ’70-’80 e nuovi (si fa per dire…) nati dai reality di casa nostra (Raffaello Tolon), più varie comparsate dal mondo calcistico.
Superflua secondo me l’interpretazione di Anna Maria Barbera, che in questi ultimi anni non è ancora riuscita a disfarsi del personaggio di “Sconsy”, rimanendo quindi la macchietta di sé stessa.
Le battute davvero riuscite non mancano, anche se a volte si scade nel grossolano (come con “Mi sono sempre piaciute le donne che schiumano!”) e in battute già trite e ritrite, con le quali però si va sul sicuro per il divertimento di tutti i tifosi, purché non siano interisti.
Da notare che alla battuta pronunciata dalla Barbera sul film di De Sica, il cui titolo è stato storpiato in “I giardini dei Finti Scontrini”, nessuno in sala ha riso e il ragazzo dietro di me ha sussurrato all’amico “Ma cosa vuol dire ‘sta battuta?”.
Per tutta la durata del film sembra che le tre storie si debbano incrociare in qualche modo, cosa che però non succede e il film termina con un epilogo non più raccontato dallo speaker esaltato, ma da uno dei tre personaggi principali.
Ma nemmeno l’epilogo serve a risolvere appieno le tre storie, che rimangono così terminate bruscamente, con al loro interno alcuni episodi chiusi senza pochi preamboli con la fretta di finire il film.
Il film è quindi un po’ quello che è: l’ennesima riesumazione dei trash-movie italiani degli anni ’80, in cui non serve saper recitare.

6/10

P. S.: “eccezzziunale veramente” la puzza di birra che aleggiava in sala durante la proiezione del film.

lunedì 23 gennaio 2006

"Le due inglesi" di François Truffaut



Tratto dal secondo (e forse ultimo) romanzo scritto da Henri-Pierre Roché, Truffaut ne ricava una sorta di seguito parallelo a “Jules e Jim”, dove però i ruoli sono ribaltati e per tutta la durata del film sono due donne (sorelle) a rincorrere lo stesso uomo.
Il francese Claude inizialmente tentenna facendo credere alla più anziana delle sorelle di avere sani e ferrei principi che non gli permettono di concedere le sue grazie alla prima venuta.
Ma poi capitola per accettare l’invito di Anne a passare un po’ di tempo nella sua inglese patria, lì Claude conoscerà anche l’altra sorella, Muriel, che, affetta da un non ben specificato disturbo agli occhi, se ne sta rintanata in casa facendosi odiosamente desiderare.
Il film, diviso dall’uso di iridi che ne oscurano lo schermo segnando così la fine di ogni sequenza ritenuta importante per lo svolgimento successivo della vicenda, risulta essere eccessivamente lento nella prima parte, lentezza che è da associare alla voce fuori campo (dello stesso Truffaut) che con tono aggressivo narra e condensa, in poche brutali battute, giorni e mesi di accadimenti.
Il tono usato da Truffaut non risolleva comunque il torpore in cui ero caduta durante la visione…
Più interessante la seconda parte, in cui Muriel e Claude vengono costretti a separarsi per volere delle rispettive famiglie. La lontananza dà il via a un turbinio di relazioni nascoste (Anne incontra a Parigi per puro caso Claude e dopo averlo abbandonato si dà al primo che passa), scambi, missive amorose, confessioni, ecc…
Secondo me inspiegabile la decisione di Claude di pubblicare una lettera inviatagli da Muriel, in cui gli rivela il suo appassionato amore per… sì, insomma, la masturbazione.
Ecco forse spiegato il motivo della sua cecità, eheheheh…
Rispetto a “Jules e Jim” questo film risulta essere più crudo in fatto di sentimenti e scene di sesso tra i protagonisti, sarà che dal primo lungometraggio sono passati dieci anni, ma in “Le due inglesi” Truffaut mostra anche il lato carnale e fisico delle relazioni amorose tra Claude, Anne e Muriel (ad esempio l’inequivocabile conferma della perdita della verginità di Muriel viene chiaramente mostrata, idem per le pulsioni sessuali della stessa che vengono sbandierate ai quattro venti), così come i dialoghi tra i protagonisti che vertono su questi argomenti sono molto duri e senza scrupoli.
Non troppo curati i costumi e le scenografie (Muriel indossa dei ridicoli occhiali chiaramente comprati ad un mercatino di “figli dei fiori”), pessima caratteristica riscontrata anche nella maggior parte dei film in costume di questo periodo.
I finali diretti da Truffaut mi lasciano sempre l’amaro in bocca: così come in “Jules e Jim”, le immagini scorrono via con indifferenza, mentre una voce fuori campo (in questo caso di Claude e non di un narratore onnisciente) butta lì allo spettatore qualche parola per chiudere il film.
Ed è sempre l’uomo a rimanere solo, avvolto da una tristezza che non lo abbandona nemmeno quando si volta e si allontana dalla scena.

7/10

P. S.: questo scritto non prevedeva inizialmente un confronto tra “Le due inglesi” e “Jules e Jim”, dato che avevo assistito alla proiezione del primo film molto tempo fa e ho visto “Jules e Jim” solo settimana scorsa.
Ho poi deciso di rivisitare e correggere quanto ho scritto su “Le due inglesi”, ampliandone così la critica.

domenica 22 gennaio 2006

"Jules e Jim" di François Truffaut (1961)


Ho sempre una certa difficoltà nel commentare e recensire i film di Truffaut, e dato che ora mi trovo davanti a una delle sue opere da sempre reputata come un capolavoro, beh… di male in peggio! Ho l’impressione che se criticassi negativamente questo film, mi attirerei le ire di tutti gli spettatori che “osannano” Truffaut.
Ma proseguo.
Jules e Jim si rivelano subito essere due ventenni (nonostante l’età degli attori che li impersonano sia molto più in là) che agli inizi del Novecento a Parigi, la capitale del vizio (se mi permettete questa definizione…), trascorrono le giornate in un turbinio di relazioni passeggere e superficiali con ogni donna abbastanza attraente che capiti loro sottomano.
Jules però è dei due quello che cerca di tenere di più i piedi per terra e sarà il primo a soffrire per una ragazza che lo preferisce con il primo uomo che incontra in un locale; e sarà sempre Jules a innamorarsi ricambiato della bella Catherine e a voler creare una famiglia con lei, non prima però di aver temuto (e a ragione) un’attrazione reciproca tra la futura moglie e il donnaiolo Jim.
Ma Catherine, catapultata in questa coppia inseparabile di cui lei ne diventerà la terza componente per sempre, sposa Jules ma sente irrefrenabile il desiderio per Jim.
La guerra separerà la coppia da Jim, e i due uomini saranno costretti a combattersi su due fronti diversi, come se già si stessero preparando alla contesa che vedrà pochi anni dopo come oggetto l’indecisa Catherine.
Catherine però è proprio come la si vede nella locandina del film (ma che non credo sia quella originale): gaia, felice (nonostante dei piccoli turbamenti, dovuti però solo al suo animo passionale) e sfuggente, infatti le silhouettes di Jules e Jim la rincorrono sullo sfondo arrancando con fatica e sembrano non ce la faranno mai a raggiungerla.
Alla fine sarà la stessa Catherine a decidere chi dei due avrà la vittoria, costringendo però il trio ad un tragico finale.
Ed è proprio il finale che credo sia riuscito male: nonostante tutto il film mi abbia anche commosso, il finale, che dovrebbe essere di una drammaticità e di un pathos non irrilevante, non sembra essere riuscito a dovere, le immagini mi sono scivolate addosso come nulla a causa della voce fuoricampo troppo invadente e soprattutto a causa della musica che avrebbe dovuto virare su di un tono più tragico, mentre resta la stessa di tutto il film.
Truffaut è riuscito a dare piccole varianti ai personaggi principali rispetto al libro omonimo da cui è tratto (e che non mi era piaciuto affatto), rendendolo davvero un bel film.
Catherine risulta così essere una donna razionale ma allo stesso tempo talmente passionale da esser capace di “colpi di testa” come quello di abbandonare marito e figlia per molti mesi; nel libro invece mi è sembrata solo una donna isterica e il cui gesto di minacciare con una pistola Jim era solo un altro dei suoi momenti di schizofrenia, nel film invece questo acquista un significato più profondo e chiaro: l’estremo gesto di una donna che è disposta a tutto pur di trattenere al suo fianco l’uomo che ama.
Jules nel libro mi è parso un ragazzo solo e stupido, mentre nel film è un uomo capace di gesti teneri e amorevoli nei confronti della figlioletta, con la quale passa la maggior parte del tempo quando Catherine lo lascia per Jim, e verso la moglie che non ha mai smesso di amare e che abbraccia con passione nella commovente scena in cui Catherine gli rivela di voler abbandonare anche Jim.
La figura di Jim nel film non ha molte differenze dal libro, ma nel film risulta essere più maturo e la sua amicizia con Jules risulta essere più forte.

8/10

P. S.: Consiglio però di guardarlo in lingua originale, dato che i tre protagonisti parlano svariate lingue che nella versione italiana vengono ridotte a una (la nostra), questo rende un po’ confusionari i dialoghi, alcune battute dette in italiano (che corrisponderebbe al francese dell’originale) vengono in realtà pronunciate in tedesco.

sabato 21 gennaio 2006

La mangio!

Per vie traverse è approdata a casa mia questa mega torta “made in UK” ricoperta di glassa. :P

Mappazza di cioccolato

venerdì 20 gennaio 2006

"5x2 - Frammenti di vita amorosa" di François Ozon (2004)


Trama: cinque momenti della vita di due persone che hanno deciso di sposarsi. I “frammenti di vita amorosa” sono visti però partendo dall’ultimo che segna il divorzio dei due, per risalire fino all’incontro che ha cambiato la vita ad entrambi.

La vita di Marion e Gilles è stata davvero “amorosa”? Il film inizia (oppure finisce…) con i due coniugi che si rivedono dal notaio esclusivamente per porre fine alla loro vita di coppia.
Entrambi firmano le carte senza ripensamenti, se non quando, rintanati in una squallida camera d’albergo, consumano per l’ultima volta il loro amore; Gilles in particolare lo fa in maniera brutale e violenta, costringendo Marion ad un rapporto sessuale che non ha nulla di “amoroso” e che mi ha dato l’impressione di vedere un uomo che violenta la propria moglie perché tanto ormai “sua moglie” non lo è più, e si può prendere qualsiasi libertà con quella che ormai non è nient’altro che una sconosciuta.
Nonostante questo però Gilles chiederà a Marion di riprovare a ricostruire qualcosa, ma ormai Marion è decisa a uscire dalla sua vita per sempre, e la vediamo attraversare lo stesso corridoio dell’albergo, che prima aveva percorso fianco a fianco con Gilles, da sola; e sola era anche in tutti i momenti più importanti della sua vita: durante il parto, mentre l’indifferente Gilles si mangia una bistecca al ristorante, sola durante la prima notte di nozze mentre Gilles dorme in panciolle sul talamo nuziale.
Non viene però esplicitamente detto di chi sia la colpa per la fine del matrimonio, ma personalmente credo che sia di entrambi, nessuno dei due si è mai impegnato veramente, la stessa Marion aveva spinto il marito in quell’orgia in cui Gilles la tradisce sotto i suoi occhi e che ci viene raccontata durante una cena con amici, e i tradimenti non sono nemmeno esclusiva di Gilles, ricordate cosa fa Marion nella penultima sequenza?
Ma come sempre ci sono i pro e i contro, i contro: la mediocre scena del giochetto dell’animatore turistico italiano (ma all’estero adesso crederanno che noi italiani siamo tutti burini?); Valeria Bruni Tedeschi che, nonostante mi sia sempre piaciuta e che ho apprezzato in film come “La parola amore esiste”, qui ha avuta la brutta idea di doppiarsi da sola in italiano; i brani di canzoni italiane anni ’60 che dividono le cinque parti del film e che sembrano sistemati ad arte (troppo!) per seguire gli stati d’animo dei protagonisti; i pro: bravissimi attori, dai due principali fino a quelli secondari, la bellissima canzone di Paolo Conte e dialoghi sempre appropriati.
Però, che visione negativa del matrimonio… nemmeno l’ultima scena, in cui Marion e Gilles si allontanano dalla riva della spiaggia mentre il sole al tramonto ci mostra una fotografia poetica di quello che i due giovani avevano sognato per il loro amore, serve a sollevare lo spettatore (io) che ha sempre impresso nella mente la prima sequenza in cui i due si separano per sempre.
Come dire, l’amore non esiste?

8/10

giovedì 19 gennaio 2006

"Una lunga domenica di passioni" di Sébastien Japrisot


Trama: Prima Guerra Mondiale, 1917. Cinque soldati francesi, colpevoli di essersi feriti da soli per poter abbandonare per sempre il fronte, stanno per essere abbandonati a loro stessi nella striscia di terreno che divide la trincea francese da quella tedesca. Il destino sceglierà per loro.
Due anni dopo, Mathilde, la fidanzata di Manech, uno dei cinque soldati, si mette alla ricerca del suo promesso sposo sicura di trovarlo ancora vivo.

Il titolo originale del romanzo di Japrisot non è esattamente tradotto in italiano, infatti la corretta traduzione sarebbe “Una lunga domenica di fidanzamento”.
Il titolo tradotto in questo modo avrebbe subito catapultato il lettore nella giusta ottica in cui si dovrebbe leggere il libro: Manech e Mathilde sono ben lontani dal passare una lunga domenica di passioni, perché la domenica del titolo è l’ultima che ha visto in vita Manech sul fronte prima che le sue tracce fossero perse per sempre; i due giovani sono prima di tutto due innamorati prossimi al matrimonio, la situazione in cui si trovano entrambi in quella domenica del 1917 è quindi quella di due promessi sposi che si trovano a dover prolungare il loro fidanzamento per sempre essendo rimasti in una situazione di stallo della quale non si riesce a trovare, apparentemente, una soluzione.
Mathilde, fedele al suo innamorato, invece di rassegnarsi e cercarsi un nuovo fidanzato, inizia nel 1919 una lunga ricerca per riuscire a carpire qualche informazione che le assicuri la validità di quello che in cuor suo sa essere vero: Manech è vivo, bisogna solo cercarlo.
La ricerca è minuziosamente testimoniata dalle lettere che Mathilde riceve e che spedisce a sua volta, dai colloqui con reduci di guerra, dai risultati che il suo investigatore privato riesce a raccattare durante le sue “spedizioni”.
Alla storia di Mathilde e Manech, si intrecciano quelle degli altri quattro soldati che erano in compagnia del giovane sul fronte, quelle dei loro famigliari e quelle di altri soldati che in quella domenica del 1917 si trovavano nella stessa trincea, testimoni della tragedia che ha colpito quei cinque che volevano solo che quella carneficina finisse immediatamente.
Data la mia poca dimestichezza con i nomi francesi, ho fatto non poca confusione durante la lettura del romanzo per ricordarmi tutti i cognomi e ad associare di conseguenza una storia ad ognuno.
Abbastanza noiosa la parte centrale del libro, troppe lettere, troppi personaggi che si accavallano l’uno sull’altro; avrei preferito seguire più da vicino la situazione in cui si trova Mathilde, dato che di lei si sa poco se non per informazioni nascoste in quell’interminabile carteggio; molto toccante invece l’ultima parte in cui Mathilde riesce finalmente, dopo sette anni di attesa, a districare i fili che la separano dalla verità.
Non mi sorprende che Jeunet abbia tratto un film da questo libro, la figura di Mathilde è molto simile a quella di Amélie (da “Il favoloso mondo di Amélie”) per la stessa felicità con cui affronta la vita nonostante sia sola, e alcuni passaggi del romanzo e lo stile di scrittura mi hanno fatto molto ricordare il precedente film di Jeunet.

7/10

martedì 17 gennaio 2006

"Le lettere da Capri" di Mario Soldati


Trama: Mario segue l’intricato evolversi della storia d’amore tra l’amico americano Harry, sua moglie Jane e l’amante italiana Dorothea, attraverso un copione scritto da Harry per un ipotetico film.

Il libro di Soldati, pubblicato per la prima volta nel 1954, per le tematiche trattate è ancora oggi molto attuale. Dietro un’apparente storia insipida, già vista e letta, quello che rende questo libro davvero notevole è l’analisi psicologica dei tre componenti del triangolo amoroso.

Attraverso gli occhi di Mario che legge il copione scritto da Harry per un film che forse non verrà mai girato, seguiamo le vicende complicate e problematiche di Harry che si deve destreggiare tra la moglie e l’amante.

L’evolversi del rapporto che l’uomo ha con le due donne è intervallato da lunghi paragrafi in cui Harry si abbandona sul filo dei ricordi analizzando minuziosamente le sensazioni e i pensieri che le due donne suscitano in lui.

Jane e Dorothea sono l’una l’opposto dell’altra: quanto più la prima è composta e ben ingabbiata nel ruolo di mogliettina della classe media americana, tanto la seconda di riflesso è carnale, sensuale, prorompente e viva.

In un altalenante desiderio di abbandonarsi prima a Jane e poi a Dorothea, Harry non sa decidersi su chi delle due avrà il privilegio di restargli accanto per tutta la vita. Mentre Harry è con Jane, desidera in modo maniacale fino alla pazzia di stare con Dorothea, ma una volta raggiunto l’obbiettivo ritorna ad essere il solito indeciso e titubante e a preferire la dolce e mite compagnia della moglie.

In questo vortice autodistruttivo ci stava anche per cascare Mario, che conosciuta per caso Dorothea, ne rimane folgorato per la bellezza mediterranea e la capacità innata di sedurre qualsiasi uomo anche involontariamente. Ma ad un rifiuto categorico della donna, Mario si defila rimanendo nell’ombra per tutto il resto del racconto.

Harry non è l’unico ad avere una doppia identità che sfoggia alternativamente con Jane e con Dorothea; Jane infatti, dietro un’apparente normalità, nasconde un animo ancora più debole di quello che dimostra, facile da sottomettere sia psicologicamente che fisicamente. Il tutto è rivelato in una serie di lettere (quelle del titolo) che la donna scrisse ad Aldo, il suo amante italiano.

Quindi Aldo è per Jane quello che Dorothea è per Harry.

Le figure di Dorothea a Aldo rimangono però solo accennate, infatti dei due personaggi non verrà mai dato un quadro netto e chiaro, come invece è stato fatto per Harry e Jane. Forse perché i due amanti italiani rappresentano solo ciò che i due giovani americani hanno sempre sognato di essere, ma che per costrizioni di tipo famigliare e legate alla classe sociale a cui appartengono, quella americana perbenista e bigotta, non si sono mai azzardati a rendere reale.

Così, in una serie infinita di tradimenti, fraintendimenti, paranoie e felicità solo apparente, il trio, anzi, il quartetto, si consuma fino al triste e sconsolato finale, in cui nessuno ha ottenuto quello che ha sempre desiderato, in un’incertezza che non avrà fine.

8/10

domenica 15 gennaio 2006

"Storie di sguardi"

Pensavo di essere l’unica ieri a non aver ancora visitato la mostra “Storie di sguardi” a Milano, essendo oggi l’ultimo giorno di apertura, invece nelle due sale adibite per l’esposizione c’era molta gente tra cui un bambina urlante e un uomo barbuto che scattava foto di straforo.
La mostra, divisa appunto in due sale, ripercorre i primi 150 anni della nascita della fotografia, partendo dal 1827 con il primo esemplare scattato da Niépce, proseguendo poi con i dagherrotipi e finendo con la seconda metà del Novecento e le fotografie di moda.
Molto interessanti le didascalie che accompagnano ogni fotografia e in cui vengono spiegati al visitatore tutti i passaggi e le invenzioni legate alla macchina fotografica e agli artisti più importanti che si sono cimentati con essa; didascalie molto più dettagliate erano stampate su tessuti rossi e appesi alle pareti.
Le fotografie esposte sono tutte riproduzioni dall’originale, tranne le fotografie e i dagherrotipi autentici esposti in alcune teche al centro della seconda sala, un peccato però non aver visto un originale di almeno una delle molte opere esposte; a colmare la sottile delusione c’erano però i tre o quattro dagherrotipi intrappolati nelle teche, di cui uno davvero singolare: una spilla rotonda d’oro (?) al cui interno era incastonato un piccolo dagherrotipo raffigurante delle fanciulle.
Sarà che preferisco gli artisti tra Ottocento e anni Trenta, ma le opere esposte riguardanti gli anni ’50-’60-’70 le ho poco apprezzate. Opere come “Ritorno alla ragione” di Man Ray o “Nudo, Parigi” di Pierre Louÿs sono entrambi dei nudi femminili come “Senza titolo (Topolino)” di Les Krims, ma quest’ultima non ha niente a che fare con il fascino suggestivo e totalmente privo di volgarità e morbosità delle opere di Louÿs e Man Ray. Ma dato che la mostra ha l’intento di ripercorrere poco più di cent’anni di arte fotografica, è giusto che ci siano anche opere di quel tipo che hanno segnato un distacco e un’innovazione da quelle prodotte nei precedenti anni (che però mi ostino a precisare sono di gran lunga migliori).
Per chi vuole saperne di più e per chi non è riuscito a visitare la mostra, è disponibile il catalogo composto da tre volumi in cui si ritrovano tutte le opere esposte e anche di più, accompagnate da un testo critico; ma la qualità delle riproduzioni su carta in alcuni casi non è perfetta.
Altra pecca le luci che illuminano le opere esposte nelle due sale, che in alcuni punti erano sistemate malamente, questo causava uno spiacevole riflesso sul vetro delle cornici che rendeva difficile la perfetta visione delle fotografie.
Nonostante questi due piccoli difetti è una mostra davvero molto interessante e utile per chi si vuole avvicinare a una delle arti più accessibili di questo ultimo secolo.

venerdì 13 gennaio 2006

"Oliver Twist" di Roman Polanski

Trama: E’ proprio necessario scriverla? Ridurre un capolavoro di Charles Dickens in tre righe non gli renderebbe giustizia!

Ennesima trasposizione cinematografica di “Oliver Twist”, romanzo pubblicato nel 1837 e scritto da Charles Dickens, il film di Polanski è nato per far divertire i bambini e in particolare i figli del regista.

Il film ha però poco del puro divertimento per fanciulli; è sì una favola, come lo dimostra anche la locandina originale, in cui non ci sono personaggi in carne e ossa ma silhouettes nere che si stagliano sul bianco del fondo e che ricordano dei burattini, ma ha tutti i toni dell’oscuro, della tensione, della paura e della morte.

Anche se in alcuni punti il film riprende i tratti caratteristici della favola, come ad esempio la musica saltellante che accompagna il cammino del piccolo Oliver e il sole che sorge e i cui raggi sembrano essere stati disegnati su un foglio da un bambino, le tematiche trattate e i personaggi che Oliver incontra sono cupi e inquietanti.

Così come l’elemento autobiografico costella la produzione letteraria di Dickens che da bambino si vide costretto a lavorare in una fabbrica, esperienza che lo turbò profondamente e di cui non riuscì a liberarsi nemmeno in età adulta, anche nel film di Polanski, pur basandosi su un soggetto non originale, si ritrovano molti aspetti della vita del regista, infatti anch’egli non trascorse un’infanzia felice perché perseguitato dalle leggi razziali durante la Seconda Guerra Mondiale.

Nel film Polanski rielabora la storia del bambino solo e costretto a cavarsela con svariati stratagemmi, adattandola alla sua esperienza personale. In questo modo però, collegando la storia di Oliver alla sua, il tutto prende una piega più tragica e disperata, la scenografia (in alcune sequenze rielaborata perfettamente a computer) e gli ambienti sono sempre sotto una cappa scura e fuligginosa, nelle case non entra mai il sole e sembra di essere ancora in uno dei vicoli sporchi e pieni di topi che circondano la Londra vittoriana (anch’essa ricostruita a computer e adattata alle vie di Praga in cui il film è stato girato).

Ma mentre nel romanzo di Dickens nessuno ha scampo alla giustizia divina, nemmeno il feroce cane di Bill Sikes che morirà mostruosamente, Polanski ha invece eliminato la fine del cane e tolto alcuni passaggi troppo crudi del romanzo, infatti il libro di Dickens è molto differente dagli altri scritti in precedenza perché costellato da una crudeltà che non lascia scampo a nessuno.

Doppiato pessimamente dai doppiatori italiani, il film vanta però dei giovanissimi attori lodevoli e un insolito e irriconoscibile Ben Kingsley che interpreta alla perfezione il ruolo di Fagin restando fedele al libro di Dickens.

Da guardare con attenzione i costumi curatissimi nei minimi particolari, così come la ricostruzione della Londra vittoriana.

E’ davvero un bel film, peccato per l’orribile doppiaggio.

9½/10

martedì 10 gennaio 2006

"Viva Zapatero!" di Sabina Guzzanti


Trama: Sabina Guzzanti prende spunto dalle vicende legate al suo spettacolo “RaiOt”, sospeso dopo una sola puntata trasmessa in tv, per raccontare in quale situazione si trovi l’Italia in fatto di libertà di stampa.

Sulla scia di Michael Moore, Sabina Guzzanti ha scritto e diretto questo documentario che ha lo scopo di dare informazioni e notizie sulla censura e la libertà di stampa in Italia, informazioni che al semplice cittadino italiano non sono state mai rivelate oppure date solo in parte.

Il riferimento a Zapatero nel titolo non c’entra con le scelte politiche da lui fatte quando salì al governo, ma fa riferimento alla decisone di vietare al capo dello Stato di eleggere i capi delle reti pubbliche.

Ho trovato il documentario ben fatto, mai noioso (forse anche perché breve), interessante e non di parte (nonostante in sala fossi circondata da “gggiovani” chiaramente di sinistra che al termine della proiezione hanno applaudito per cinque minuti buoni).

L’unica sequenza che non ho apprezzato è stata quella in cui Sabina Guzzanti, con voce fuori campo, spiega le sorti del suo spettacolo censurato mentre sullo schermo lei passeggia per le vie di Roma con la tristezza negli occhi, ecco… un po’ troppo melodrammatica, dato che si sta facendo un documentario e non un film sentimentale.

Peccato che nel multisala vicino a casa mia non sia mai stato proiettato, sono riuscita a vederlo solo grazie al Cineforum; la visione di questo documentario sarebbe stata molto utile per tutti, ma evidentemente un film di questo tipo non attira abbastanza spettatori come invece riesce a fare un qualsiasi altro film che non riguarda la “cultura” in senso lato ma il puro divertimento.

O forse è solo un’altra forma di censura…?

9/10

lunedì 9 gennaio 2006

"Jules e Jim" di Henri-Pierre Roché



Trama: Parigi, 1907. Il tedesco Jules viene introdotto nell’ambiente parigino dall’amico Jim. L’amicizia fra i due giovani si fa sempre più salda e profonda, ma l’arrivo di una donna nella loro vita mette a soqquadro l’armonia che Jules e Jim si erano creati in tanti anni di amicizia.

Non ho mai visto il film diretto da François Truffaut tratto da questo romanzo, spero che non sia fedele al libro di Roché. Perché:

  1. Jim viene presentato come un dandy, di conseguenza Jules, emulando il suo idolo in tutto e per tutto, tenta di diventare come Jim ma con la conseguenza negativa di sembrare un povero campagnolo arricchito con le braghette tirolesi e i calzettoni di lana.
  2. Ogni donna che passa per il tempo di una sveltina nelle vite di Jules e Jim, sembra avere dei seri problemi psichici, due esempi: Odile vuole uccidere l’ex marito con il vetriolo e tenta poi di avvelenare Jules e Jim; Kathe dorme con una rivoltella sotto al cuscino e ne fa anche di peggiori, ma per scoprirle dovete arrivare al termine del romanzo (visto che per arrivare alla fine ho faticato non poco, dovete soffrire anche voi, eheheh…).
  3. Tutta questa importanza del “triangolo amoroso” non riesco a trovarla, ad ogni presentazione di una nuova donna sembra sempre che sia lei quella che cambierà definitivamente la vita di Jules e Jim, quindi all’apparire di Kathe (cioè il terzo componente definitivo del triangolo) ho impiegato qualche capitolo per capire che era “lei”.
  4. La narrazione è lenta, noiosa, zeppa di analisi psicologiche dei tre personaggi principali che ad ogni capitolo cambiano desideri, decisioni, umore e ruolo nel triangolo.

Questo romanzo mi ha lasciata indifferente e annoiata, lo definirei come una sorta di circolo vizioso in cui i personaggi si scambiano a loro piacimento i ruoli nella “coppia”, restando forse in questo modo fedeli al principio cha sta alla base della loro vita: essere dei dandy.

4/10

domenica 8 gennaio 2006

"I prati di Sara" di Iva Zanicchi

Trama: Ilde ed Emma, nate a pochi gironi di distanza, crescono inseparabili anche se diverse: Ilde è la classica ragazza di campagna senza grilli per la testa, Emma invece fin da piccola ha rivelato avere strani poteri da sensitiva, la sua capacità di prevedere il futuro cambierà la vita di molti abitanti del paesino in cui vive ma anche la sua.

L’elemento autobiografico è alla base di questo romanzo, in cui si possono ritrovare moltissimi aneddoti riguardo a com’era la vita una volta, quando ancora non c’era la televisione e la radio era appena arrivata nelle case. Una vita in campagna che aveva la bellezza di prati verdi in cui dormire la notte guardando le stelle nel cielo, enormi castagni sotto i quali passare un pomeriggio assolato d’estate con il frinire delle cicale, il sapore della polenta calda.

Il pregio di questo romanzo è appunto la rievocazione di tempi lontani, la nostalgia; ma la storia portante, quella cioè di Ilde ed Emma, è fin troppo prevedibile e alcuni passaggi sono poco chiari o abbandonati a sé stessi e mai più ripresi al termine del racconto.

Questi lati negativi sono forse causati da un punto di vista che non si focalizza solo su di una storia ma che spazia fra varie vicende, interrompendo così la narrazione principale con lunghe digressioni sottoforma di aneddoti.

La storia di Ilde ed Emma e quelle di tutti i personaggi secondari hanno però un unico denominatore comune: i prati di Sara, i prati che circondano appunto il paese di Emma e Ilde.

Il romanzo può essere così visto come un lungo racconto corale che ripercorre le vicissitudini di un paesino sull’Appennino tosco-emiliano prima dello scoppio della Seconda Guerra Mondiale.

6/10

sabato 7 gennaio 2006

"Memorie di una geisha" di Rob Marshall


Trama: Giappone, primi anni ’30. La piccola Chiyo viene venduta dai genitori alla proprietaria di un Okiya (la dimora delle geishe). Ma Chiyo ben presto riesce a trasformare la triste situazione in cui si trova, in una prova che va superata per riuscire a diventare una geisha affermata e ritrovare così l’uomo di cui è innamorata.

Tratto dal romanzo omonimo di Arthur Golden, il film resta molto fedele alla trama originaria ma non approfondisce e non spiega moltissimi aspetti della vita delle geishe, un mondo particolare e suggestivo che ancora oggi è poco conosciuto.

Mentre il libro alterna alla storia di Chiyo molte descrizioni tecniche di usi e costumi nell’ambiente delle geishe, il film si focalizza sulla storia d’amore risultando così a volte melenso.

Il personaggio di Chiyo nel film viene presentato solo come una bambolina creata per dar “piacere” agli uomini e che pensa solo al grande amore; nel libro invece la giovane Chiyo è tutt’altro che una ragazza sottomessa, lo è solo in apparenza perché forte e cinica al punto giusto. Nel film sembra svegliarsi solo quando sta per essere svelato il nome dell’uomo di cui è innamorata, per ricadere poi nella mollezza dei suoi kimono.

La storia, troppo lunga per essere narrata interamente nel film, ne risente nella seconda parte quando lo scoppio della Seconda Guerra Mondiale scombussola il mondo delle geishe, un mondo a sé stante in cui le notizie di un’imminente guerra arrivano solo con una flebile eco. Anche il finale nel libro è (un po’) diverso, svela infatti un elemento importante, secondo me, per la crescita spirituale di Chiyo e che al contrario Marshall ha deciso di tagliare, ma non aggiungo altro per non rovinare la sorpresa di chi ha deciso di leggere il libro.

Bellissima la scenografia e i costumi (anche se il colore rosa a volte è forse troppo presente); sugli attori invece ho una critica: se la storia è ambientata in Giappone, perché allora le attrici principali sono CINESI? Ma, già, il libro l’ha scritto un americano, il film l’ha diretto un americano, ergo ci mettono le attrici che vogliono.

Il film è comunque ben riuscito (a patto che non si guardino le critiche da me fatte poco più sopra...), le due ore e mezza non pesano sullo spettatore grazie anche a una trama scorrevole e avvincente (il merito di questo va però a Golden).

Precisazione: il “Direttore Generale” è in realtà un “Presidente”.

8/10

giovedì 5 gennaio 2006

"Tu la conosci Claudia?" di Massimo Venier



Trama: il matrimonio di Claudia è in crisi, unica soluzione: farsi l’amante e trasformare così l’amicizia con Giacomo in qualcosa di più. Giovanni, il marito, mentre insegue in macchina Giacomo, causa un tamponamento a catena in cui rimane coinvolto anche l’ex amante di Claudia, Aldo, del quale però Giovanni non sa ancora l’esistenza…

Sono finiti i tempi di “Tre uomini e una gamba” e dopo “Chiedimi se sono felice” il trio AldoGiovannieGiacomo ha cominciato a peggiorare.

Poche le battute veramente divertenti, il resto scade a volte nel volgare, nell’eccessivo (Giovanni che fa pipì nel vaso da fiori di Giacomo dovrebbe far ridere? Non prendetemi però per una bacchettona!), nel “già visto” (tutti quei “miiiiiiiiiii” di Aldo), nell’anonimo.

Ritorna di nuovo il tema del viaggio, il trio on the road alla ricerca di qualcosa che è sempre un pretesto per far pace con i propri problemi e le proprie fisime.

Lo svolgimento della trama ha alcuni passaggi che rimangono celati e mai più svelati alla fine del film, i dialoghi fra i tre protagonisti maschili talvolta sembrano solo degli sproloqui senza senso.

La noia a volte ha preso il sopravvento sulla sottoscritta e lo sketch di Giovanni che spezza i titoli di coda poteva anche essere eliminato così da porre la parola “FINE” senza aggiunte inutili.

4/10

mercoledì 4 gennaio 2006

"A history of violence" di David Cronenberg


Trama: il pacifico Tom Stall sventa una rapina, nel locale di sua proprietà, uccidendo i malviventi. Da qual giorno in paese tutti lo osanno come un eroe, ma dei loschi individui iniziano a tampinarlo credendo di avere di fronte l’uomo che in passato aveva cercato di uccidere uno di loro.

Un noioso piano sequenza ci presenta i due malviventi che verranno in seguito uccisi dall’impavido Tom Stall, sembra che non debba succedere niente di avvincente nemmeno nel resto del film…

Soffoco uno sbadiglio ma faccio in fretta a svegliarmi perché il film dopo quella prima sequenza si trasforma in una storia a metà tra il thriller e il noir fatta di suspance, intrighi, colpi di scena alla Hitchcock.

Nessuno dei protagonisti è chi dice di essere, ma la risposta sulla vera identità già a metà film ci viene svelta, questo però non sminuisce il corso della storia che, anzi, si fa ancora più coinvolgente.

I dialoghi tra i personaggi alludono, ritrattano e confermano ancora i sospetti; ma i dialoghi non sono la parte principale su cui si basa il film, è piuttosto ciò che fanno i protagonisti, come si comportano, come reagiscono agli accadimenti che serve allo svolgimento della storia.

Il sesso non nasconde voglie pruriginose del regista, le due scene di sesso servono invece per far capire allo spettatore come Tom e la moglie reagiscono individualmente (anche se in maniera simile) alla tragedia che ha colpito la loro famiglia; la prima scena di sesso mostra l’intesa, l’amore, che circonda la coppia, la seconda invece ribalta completamente tutto quello che i due avevano creato in anni di matrimonio, e attraverso quel rapporto sessuale così crudo e violento, marito e moglie sfogano la loro rabbia.

Curioso come il piccolo crocifisso che all’inizio è al collo di Tom, a metà del film scompare per apparire al collo della moglie, e nell’ultima scena (e ricollegandomi a quanto detto prima: non a caso completamente muta) è di nuovo al collo di Tom. Il passaggio del crocifisso da una personaggio all’altro allude all’essere o meno in pace con la coscienza e soprattutto con Dio.

Il film è molto ben recitato, qualche risatina la riescono a strappare anche le interpretazioni a volte ironiche di William Hurt e Ed Harris, e Viggo Mortensen è riuscito finalmente a scrollarsi di dosso Aragorn

A proposito però di Hurt, era meglio che non si fosse fatto tirare le rughe in quel modo dal chirurgo estetico: sembra che ha la bocca a culo di gallina.

9/10

P. S.: ma per i distributori italiani era troppa fatica tradurre il titolo del film nella nostra lingua?

"La Rosa Bianca - Sophie Scholl" di Marc Rothemund


Trama: il film narra gli ultimi giorni di vita della giovane Sophie Scholl, membro del movimento di resistenza al nazismo “La Rosa Bianca”, che nel febbraio del 1943 venne scoperta con il fratello Hans distribuire all’Università dei volantini di propaganda antinazista.

Molti sono i film che narrano di personaggi realmente esistiti e che poi scadono nel sentimentalismo, perdendo così tutto quello che di vero si può raccontare di quei personaggi. Rothemund invece, restando fedele al materiale a sua disposizione (verbali di interrogatori, lettere personali, testimonianze, materiale inedito, ecc…), ha modellato in maniera veritiera e non romanzata la figura di Sophie Scholl.

Sophie risulta così essere una ragazza che nonostante la giovane età affronta con grande coraggio, grazie anche alla fede religiosa, la tragica situazione in cui si trova dopo essere stata arrestata per propaganda antinazista. Quello che rimane impresso nello spettatore è infatti la grande carica emotiva e la forte volontà con cui Sophie affronta anche i suoi ultimi minuti di vita.

Sophie appena varcata la soglia del carcere si allontana sempre più dalla libertà, dalla vita; questa situazione è simboleggiata dal cielo terso e azzurro che, una volta in carcere, Sophie non vedrà più e che viene sostituito con finestre celate dietro pesanti tende scure e altre che aperte danno la vista solo ad un muro di mattoni. Sophie è così imprigionata, sa di poter salvarsi ma solo a costo di tradire i suoi ideali; ma dopo un primo smarrimento prosegue per la sua strada e lascia che il destino faccia il suo corso. Da quel momento riesce di nuovo a vedere il cielo azzurro e affronta così in maniera ancora più sicura la fine imminente.

Una delle poche ultime frasi da lei pronunciate è “Guardate, c’è ancora il sole!”, frase piena di speranza che fa ricordare la Sophie allegra e solare delle prima sequenza del film in cui canticchia una canzone con un’amica.

I titoli di coda sono inframmezzati da alcune fotografie che mostrano i veri volti di Hans e Sophie Scholl, mentre sorridono all’obbiettivo e non sanno ancora del loro triste destino.

9/10

lunedì 2 gennaio 2006

Buon anno!!!

Anche se con un po' di ritardo, visto che è già pomeriggio inoltrato, vi auguro un Felice 2006!