lunedì 31 marzo 2008

Suite francese


img256/2489/nmirovskyns4.jpgSuite francese

Irène Némirovsky

Biblioteca Adelphi, Adelphi, 19 €

Come in molti avranno notato, nell’arco di pochi mesi questo libro ha fatto il giro tra i bibliofili della rete. Io lo possedevo già da parecchio tempo (la data che ho scritto nell’ultima pagina risale addirittura al 29 aprile 2006!), ma per via della sua mole ne ho sempre rimandato l’inizio della lettura.

Una sfida letteraria organizzata con Arianna e Cecilia, ha trovato il “pretesto” giusto per impegnarmi finalmente col romanzo.

Di Irène Némirovsky già conoscevo “Il ballo” e “Come le mosche d’autunno”, due racconti brevissimi che prendono spunto dai ricordi d’infanzia dell’autrice, scritti assai bene e in cui sono condensate una miriade di analisi pungenti che già facevano prevedere la sua bravura quando ampliata e approfondita in un testo di maggior respiro.

In “Suite francese” infatti vi si ritrova tutto quello che nei racconti era stato, per forza di cose, solo accennato: lunghi paragrafi descrittivi e psicologici, una dialettica brillante e acuta, dei personaggi raccontati e analizzati nei minimi particolari, anche quelli solo secondari, un‘eleganza e una delicatezza nel linguaggio davvero notevoli. Tutto è costruito nei minimi particolari, e ce lo dimostrano gli stralci inediti del diario dell’autrice riportati in appendice: Irène aveva programmato tutto, come doveva essere “Suite francese” nella sua totalità, partendo da cinque ipotetiche suddivisioni in parti, di cui però solo due è riuscita a portare a termine prima della sua tragica scomparsa in un campo di concentramento nel 1942.

E se le lettere che Irène scambiò con amici e famigliari prima della deportazione - anch’esse riportate al termine del volume - facevano già presagire un drammatico epilogo per la sua famiglia e per sé stessa, nel libro, che stava nel frattempo cercando febbrilmente di concludere, niente traspare, tutto è visto con occhio critico e della sua condizione di ebrea perseguitata non c’è traccia.

Le due parti iniziali del romanzo - “Temporale di giugno” e “Dolce” - descrivono la trasformazione della Francia sotto l’occupazione tedesca, ma si parla di tutto tranne che degli ebrei, delle azioni restrittive del regime nazista e dei campi di concentramento.

Gli unici protagonisti dei due “racconti” (anche se è sbagliato chiamarli così) sono il popolo francese e le truppe tedesche: il primo in “Temporale di giugno” si ritrova allo sbaraglio dopo l’arrivo dei tedeschi a Parigi nell’estate del 1940; tutti scappano in campagna fuggendo a immaginari scenari apocalittici, tutti trascinandosi dietro le più improbabili masserizie e tutti attaccati avidamente a ogni oggetto materiale, dai poveri ai benestanti, fino ai ricchi taccagni come nessun altro. In questa parte iniziale di “Suite francese” vengono inserite tutte le classi sociali e nessuna sfugge all’occhio cinico e arguto della Némirovsky.

Così può capitare di leggere di una ricca madre di famiglia che nella foga di salvare sé stessa e gli ori più preziosi, si dimentica del suocero infermo nella casa appena bombardata... oppure di un gruppo di ragazzi pii e angelici, allevati in un orfanotrofio cattolico, che nel “giocare” uccidono a sassate e con la ferocia più bestiale il prete che li sta accompagnando fuori dal territorio francese in pericolo; o ancora di quel signore così arido e povero dentro, che fugge da Parigi con la paura di vedere in frantumi tutte le sue suppellettili di ceramica per lo spostamento d’aria causato dal cadere delle bombe.

Ci sono però solo due personaggi tra tutti quelli che si muovono nelle pagine di “Temporale di giugno” ad essere umani, attaccati solamente alla vita e all’affetto per un figlio sotto le armi di cui non hanno notizie. Sono i coniugi Michaud, che cercano (controvoglia) di dirigersi al seguito del direttore della banca per cui lavorano e a tutti gli altri impiegati verso la nuova sede, essendo stata quella di Parigi chiusa; ma sanno che è tutto inutile e con l’angoscia per un figlio giovane di cui temono la vita finiranno, dopo una rocambolesca settimana, per tornare a casa, in una città deserta, dove tutto, nonostante le fughe di mezzo paese, è rimasto uguale e il loro quartiere nemmeno minimamente cambiato dall’arrivo dei tedeschi.

Un comportamento simile, pacato e bonario, lo si ritrova nei due personaggi - principali, questa volta - di “Dolce”, in cui sono narrati i pochi e brevissimi mesi di “avvicinamento” di un uomo e una donna soli in una cittadina in cui, un anno dopo l’arrivo dei tedeschi a Parigi, gli stessi ritornano per ri-occupare la tranquillità del piccolo borgo di campagna.

In questo capitolo della pentalogia i tedeschi entrano vivamente nel racconto: se prima erano solo uno spauracchio tra i discorsi dei fuggitivi, ora si incarnano nel personaggio di Bruno, un ufficiale colto e gentile che occupa un paio di stanze nella casa della giovane Lucile e della suocera di questa, la rigida e scostante Signora Angellier.

Nell’intero racconto i soldati tedeschi sono continuamente paragonati agli uomini francesi in maniera superiore e pregevole; i primi sono visti, soprattutto dalle donne del paese, come degli adoni capaci di teneri gesti e accortezze anche frivole che i secondi non sognano nemmeno di fare, rozzi e sgarbati come sono.

Probabilmente le continue contrapposizioni a favore dei tedeschi sono solo un modo per la Némirovsky di esorcizzare le paure e le inquietudini che stava passando nei mesi di stesura di “Suite francese”, conscia com’era dell’arrivo imminente di un ordine di deportazione per lei, il marito e le piccole figlie.

O forse era solo per cercare in extremis di lasciare delle tracce in cui lei, ebrea russa perseguitata, si dimostrava sostenitrice dei tedeschi e della loro causa nazista...

Comunque siano andate le cose, “Dolce” resta la storia d’amore struggente e platonica di due persone sole che cercano di conoscersi andando al di là delle apparenze e dei pregiudizi e scoprono di essere esattamente l’uno per l’altra la reciproca parte mancante; purtroppo lo scarto decisivo non avviene - vuoi comunque per certe “reticenze” di appartenenza razziale - e i due si salutano per sempre quando, pochi mesi dopo, l’intero plotone viene spedito in Russia.

Ma la scena in cui Bruno lascia in custodia nella mano di Lucile il suo anello, per suonare con più scioltezza il pianoforte, è di una sensualità abnorme: lei sente attraverso l’anello il calore della mano di lui, e i due in qualche modo si uniscono nei sensi grazie alla musica che Bruno esegue alla tastiera.

Entrambe le parti del romanzo sono bellissime, la prima più movimentata e molto vicina a una lunga carrellata filmica, la seconda incentrata invece sui sentimenti e di grande tristezza per la condizione dei due giovani; tuttavia c’è chi le ha ritenute troppo romanzate e romantiche, troppo frivole per essere considerate dei capolavori riscoperti della letteratura europea.

Io comunque non sono d’accordo, “Suite francese” è un’opera grandiosa in ogni suo aspetto, e basti pensare in quali condizioni la Némirovsky l’abbia scritta, soprattutto considerato che tutti gli avvenimenti sono stati “pensati” in presa diretta, mentre i tedeschi affettivamente arrivavano alle porte di Parigi e mentre tutti scappavano in preda al panico; mentre poi gli stessi cercavano di convivere e accettarsi a vicenda durante l’occupazione.

E’ solo fortunosamente se il manoscritto originale dell’autrice sia stato salvato: le figlie di Irène sono le uniche ad essere scampate all’internamento, e rimaste orfane sono state costrette a una peregrinazione continua portando sempre con loro una valigetta che conteneva fra le tante cose proprio il manoscritto di “Suite francese”, mentre i nazisti le cercavano.

E pensare che ci sono voluti quasi due anni per convincermi a leggerlo, e ora rimpiango tristemente il fatto di non poter sapere come l’intero romanzo sarebbe stato concluso...

10/10

lunedì 17 marzo 2008

Tutti i film...

...che mancavano di essere recensiti (alcuni li ho visti addirittura un mese fa!). E fatto un bilancio per questo inizio 2008 devo dire che è abbastanza deludente - cinematograficamente parlando.

img72/2733/soffiole8.jpg

Soffio (Soom)

Kim Ki-duk

Corea del sud, 2007

Come in “Ferro 3: la casa vuota” la trama è essenziale, poche le battute così come i personaggi: Lui, Lei, L’altro.

Lei: sempre infelice, sola, in una casa vuota e asettica, tradita dal marito che non la calcola minimamente nella sua vita.

Lui: il classico Barba Blu delle fiabe che subdolamente rende insignificante la compagna, tradendola sotto i suoi occhi e provandoci pure gusto a farlo.

L’altro: solo quanto Lei, non parla mai. Vuoi perché è muto (“Ferro 3”), vuoi perché le “circostanze” lo costringono ad essere privato momentaneamente della voce (come in questo caso).

E forse, proprio perché non parla, perché vive malinconicamente la sua vita, Lei ne viene attratta e finisce per innamorarsene.

Quasi.

Perché in “Soffio” Lei ama L’altro solo per due secondi fini: vuol far capire a Lui i suoi sbagli, l’insensatezza del suo tradimento facendogli provare quello che ha passato lei, e ama L’altro per far capire a quest’ultimo le atrocità commesse - si trova infatti nel braccio della morte per aver commesso un omicidio - per arrivare poi a privarlo della sua presenza, del suo affetto (suo di Lei) uccidendolo psicologicamente, strappandogli quel “soffio” vitale che, una volta che se ne sarà andata dalla sua vita, lui non avrà più e si sentirà come morto.

Questa è solo la mia interpretazione per un film che si presta a qualsiasi tipo di significato, volendo lo si può vedere attraverso un’ottica più “felice” e pensare che Lei in quel carcere dove incontra L’altro vuole solo ridargli un attimo di vita, lo stesso “soffio” vitale, prima dell’esecuzione.

Tuttavia la tristezza, la disperazione, l’alienazione che i tre personaggi si portano dietro - insieme a un quarto che è uno dei compagni di cella del detenuto - mi fa poco pensare a un film dedicato alla vita, e il disperato rapporto sessuale che lei e l’amante consumano in carcere fonde tristemente i due lati dell’esistenza sfociando brutalmente nella voglia di morire.

7/10

img213/3034/angeliu8.jpg

Angel - La vita, il romanzo (Angel)

François Ozon

Gran Bretagna, 2007

Tratto dall’orrido libro di Elizabeth Taylor, il film è pompatissimo e sdolcinatissimo forse più dell’opera originale.

Ottima recitazione, costumi favolosi, ma rimane comunque un melodramma alla Harmony dove il punto di vista di Angel, la protagonista, falsa la realtà (così come succedeva nel libro) fino a far sembrare tutto una messa in scena, una fantasticheria di adolescente romantica con tanto di sequenze esterne girate fintamente in interni dove a suggellare l’amore compaiono anche arcobaleni infantili sotto i quali lui e lei si baciano appassionatamente.

Realtà e fantasia sono alla base della vita di Angel, ma quando è troppo è troppo!

6/10

img262/9393/30giornidibuioqi3.jpg

30 giorni di buio (30 days of night)

David Slade

Usa, 2007

Tenendo conto della mia poca propensione per i film horror - c’ho 26 anni ma mi sogno ancora It e i suoi palloncini - quando vedo l’ennesimo lungometraggio di genere non posso che ammettere di stare ogni tanto rigida sulla poltrona e sobbalzare ad ogni colpo di scena.

Premessa doverosa per un film che mi ha sì spaventata ma che, visto con occhio critico, ha enormi mancanze a livello di sceneggiatura e recitazione.

Tratto dall’omonimo fumetto di Steve Neil e Ben Templesmith (che io non ho letto) il film procede per sequenze splatter e d’azione in una perfetta atmosfera dark.

Peccato che il tutto dopo i primi 40 minuti diventi abbastanza ripetitivo e che il regista non si preoccupi nemmeno di spiegare agli spettatori alcuni punti della trama che vengono praticamente lasciati in sospeso anche alla fine.

Si sente che la sceneggiatura è stata rimaneggiata. Malissimo.

Per capire come un fumetto possa essere egregiamente trasposto al cinema guardatevi “300” di Zack Snyder.

Scusate la brevità del commento ma quando i film fanno schifo...

5/10

img72/4315/allenxq9.jpg

Sogni e delitti (Cassandra’s dream)

Woody Allen

Usa, 2007

“Essere soccorsa è uno dei miei sogni peccaminosi”-

“Non è molto peccaminoso essere soccorsa”-

“... è quello che mi facevi dopo”.

Da questo scambio di battute così erotico poteva nascere un thriller libidinosissimo, purtroppo l’ultimo di Woody Allen mette in scena le sfighe ingenue di due fratelli che vogliono fare gli spacconi ma che in realtà sono solo da compatire.

Un po’ scialbo, è diretto comunque in maniera eccellente e almeno lascia lo spettatore a bocca aperta per un finale inaspettato.

6½/10

img72/1044/stardustpz1.jpg

Stardust (Stardust)

Matthew Vaughn

Gran Bretagna, 2007

“Stardust” di Gaiman era una Favola, qui per essere “politically correct” non hanno potuto:

  1. far morire i cattivi come nelle fiabe classiche (a ognuno il suo si dice, no?) ma li hanno fatti redimere TUTTI e vivere felici e contenti con i buoni;
  2. mostrare il personaggio della Stella come una fanciulla indifesa e furba al tempo stesso, quindi l’hanno trasformata solamente in una stronzetta col grugno incazzato (sapete, l’emancipazione femminile...);
  3. far nascere Tristran da una relazione precedente al matrimonio ufficiale del padre;
  4. spendere un budget maggiore per inserire con la computer grafica anche il bellissimo personaggio peloso con la voce pelosa (mi sfugge purtroppo il nome) che aiuta Tristran nella foresta incantata, perché hanno speso tutto per coprire le rughe da culo di gallina della Pfifer;
  5. non inserire almeno un riferimento alla comunità gay-lesbica dopo che ci hanno bombardato con tutti i Gay Pride, quindi hanno trasformato il capitano della nave volante che salva la Stella e Tristran in un omosessuale latente che fa dei ridicoli balletti con guepiere e ammicca come Malgioglio.

Potrei continuare all’infinito con gli insulti a questo bruttissimo film che ha massacrato il romanzo di Neil Gaiman (che tra l’altro figurava tra gli sceneggiatori... cosa non si fa per i soldi!).

Per cercare di rimanere educata mi fermo qua.

2/10

img262/2228/4minutirv2.jpg

Quattro minuti (Vier minuten)

Chris Kraus

Germania, 2006

Quattro minuti per realizzare i sogni delle due protagoniste, un’ora e mezza per spiegare a noi spettatori il loro passato, le loro ambizioni e le tragedie che le hanno segnate profondamente fino a farle diventare quello che sono al momento della narrazione.

Una ha poco più di vent’anni, è violenta, autolesionista, cinica, disincantata; rinchiusa in carcere per un omicidio che non ha commesso incontra per caso l’altra, entrata in carcere solo per insegnare musica alla detenute, che è ormai anziana e nasconde un passato non meno doloroso della prima.

Entrambe si sentono realizzate solo suonando il pianoforte sul quale sfogano le loro frustrazioni; col tempo impareranno a conoscersi e a liberarsi, tramite l’amicizia reciproca, dei loro spettri e dei loro segreti.

Trama semplicissima che riesce a includere però una varietà di temi: dall’omosessualità all’Olocausto, dalla vita nelle carceri alle difficoltà a trovare un proprio posto nel mondo fino alla musica come strumento di rinascita.

Davvero un bel film con un finale mozzafiato.

8/10

img72/3244/sweeneytoddnp8.jpg

Sweeney Todd: Il diabolico barbiere di Fleet Street (Sweeney Todd: the demon barber of Fleet Street)

Tim Burton

Usa, 2007

Un musical così putrescente e cimiteriale come non poteva ispirare la vena dark di Tim Burton?

Tratto infatti da un’opera di Broodway - e prima ancora da una storia vera avvenuta nell’Inghilterra di inizio Ottocento - “Sweeney Todd” presenta tutti i temi che già il regista aveva usato per i precedenti suoi film: dall’atmosfera oscura della Londra Vittoriana con le sue vie malfamate e angoscianti, alle tematiche come la morte, il tradimento, fino alla presenza di un protagonista che per sentirsi “completo” ha bisogno di un’appendice non propriamente umana (Edward di “Edward mani di forbice” le forbici, Sweeney Todd i rasoi).

Per metà film e per metà musical, che per fortuna in quel caso non è stato doppiato ma solamente sottotitolato, a mio parere l’alternanza dei due generi non toglie nulla alla riuscita del soggetto (una storia macabra di vendetta) che non subisce rallentamenti nei passaggi dal cantato al parlato.

E saranno proprio i temi musicali ricorrenti per ciascun personaggio a delineare meglio la loro psicologia e a spiegare allo spettatore la maggior parte della storia che si tingerà anche di splatter nelle bellissime scenografie così umidicce e muffose, grigie come un dente cariato e squallide come un cimitero abbandonato.

Anche se Helena Bonham Carter non è al massimo delle sue capacità recitative, Johnny Depp si conferma un Attore con la bilancia della bravura che pende completamente dalla sua parte piuttosto che di quella del doppiatore italiano.

Per chi fosse interessato alla storia originale, la Newton & Compton ha da poco tradotto il romanzo scritto a metà dell’Ottocento che riporta le gesta tutt’altro che nobili del vero Sweeney Todd, che uccideva solo per soldi e non per vendetta: “Sweeney Todd” di autore anonimo.

9/10

martedì 11 marzo 2008

6 politico

img72/4199/turnodinottewm5.jpg

Turno di notte

Sarah Waters

Ponte alle Grazie, 15 €

“Vai in posti strani.”

“Vado al cinema” rispose Kay. “Non c’è nulla di strano in questo. Talvolta vedo il film due volte. Talvolta entro a metà e guardo prima il secondo tempo. Quasi quasi preferisco così... il passato della gente, sai, è talmente più interessante del suo futuro.”

Partendo da questo scambio di battute tra due dei personaggi del romanzo, estrapolato circa a metà del volume, si può capire perché l’autrice abbia scelto di strutturare il romanzo in tre parti che vanno a ritroso, ripercorrendo man mano così il passato dei quattro personaggi. Tecnica curiosa, così come lo spunto cruciale su cui si basa il racconto.

Peccato però che né il presente, né il passato dei protagonisti siano così interessanti e degni di nota per costruirci sopra un intero romanzo...

Quattro esistenze anonime, che si ricollegano le une alle altre per uno strano gioco di coincidenze, non bastano a tenere in piedi tutte le 414 pagine. Un mattone senza fine che ogni tanto però accelera il ritmo per ripiombare poi, purtroppo, nella cronaca e nell’analisi psicologica approssimata di quattro vite “normali”.

A volte il bello dei romanzi sta nel raccontare esistenze comuni esaltandone la bellezza classica e quotidiana con cui vengono condotte dalle figure a cui appartengono; se fosse stata questa l’intenzione dell’autrice ne sarebbe uscito un libro pregevole, ma Sarah Waters in questo caso non ce la fa: non c’è approfondimento psicologico; non c’è azione; la narrazione procede per “elenchi” di quello che i personaggi compiono al momento della loro entrata in scena; ci sono solo così tanti dialoghi inframmezzati da brevi annotazioni insignificanti.

Mi spiace dire che “Turno di notte” è un brutto libro, proprio dopo esser rimasta rapita dai volumi precedenti della stessa autrice [“Ladra” e “Affinità”] nonostante i voti scarsi che gli ho appioppato.
I precedenti volumi erano ambientati nell’Ottocento, questo invece durante la Seconda Guerra Mondiale. Gli altri erano incentrati esclusivamente su figure femminili, questo vede invece l’introduzione di diversi comprimari uomini verso i quali evidentemente l’autrice non ha dimestichezza d’analisi e risultano così solo d’intralcio alla descrizione delle altre donne protagoniste.

Non c’è dubbio che anche l’ambientazione di fine Ottocento contribuiva a creare un’atmosfera suggestiva, così tanto approfondita e ben documentata per le storie raccontate; al contrario, quella dell’ultimo romanzo a volte è osservata superficialmente.

Lascio Sarah Waters con un margine di riserva per le future pubblicazioni. I suoi romanzi in ogni caso mi attirano sempre.

Non si sa però quando i lettori potranno leggere nuove storie della Waters, spero almeno che siano ancora ambientate nell’Ottocento inglese...

6/10

img72/9093/doppiosognoad7.jpg

Doppio sogno

Arthur Schnitzler

Newton & Compton, 4 €

Dove finisce la realtà e dove inizia il sogno (e viceversa)?

Attraverso l’utilizzo del “monologo interiore” e l’aiuto della psicanalisi di Freud, Schnitzler mette in scena il dilemma di un medico viennese di fine Ottocento turbato da un’inaspettata rivelazione da parte della moglie: la donna aveva desiderato (sognato) di essere posseduta da un altro uomo, che non era però il marito...

Il medico Fridolin si comporta, così, come tutti gli uomini a cui salta la mosca al naso: decide di mettere in pratica una vendetta nei confronti della moglie “adultera” - si fa per dire... - e di tradirla appena gli capiti l’occasione giusta.

Nel corso di una notte senza fine, Fridolin sarà spettatore e protagonista di bizzarre situazioni al limite della licenziosità dell’epoca [il romanzo fu pubblicato alla fine degli anni ‘20] a cavallo tra realtà e onirismo.

Gli sfuggiranno dalle mani tre donne e una ragazzina che avrebbero potuto fare al caso suo, e alla fine, dopo aver abbondantemente analizzato il tutto con astruse elucubrazioni psicanalitiche, tornerà dalla moglie per scoprire che...

Non svelo il finale, non meno segnato dal subconscio, dalla fantasia e dal mondo dei sogni di Freud tanto quanto l’intera breve novella.

E’ un libro che non consiglio caldamente, lo citerei solo come alternativa nel dubbio su cosa leggere e se si cerca un breve romanzo interessante; perché comunque non sento il bisogno ogni volta di decifrare, di analizzare maniacalmente ogni aspetto del comportamento di una persona, né tanto meno facendo ricorso alla abusata analisi dei sogni.

E’ come dire che se uno mangia sempre i würstel, allora... [finite voi la frase].

6/10

img379/6003/brooklynow1.jpg

Un albero cresce a Brooklyn

Betty Smith

Neri Pozza, 14 €

Pubblicato in America nel 1942, “Un albero cresce a Brooklyn” narra la storia della famiglia Nolan vista con gli occhi della primogenita Francie che all’inizio del Novecento cerca di riscattarsi dalla miseria e dalla sofferenza.

Un libro consigliato ancora oggi nelle scuole ai lettori più piccoli.

(Ri)letto grazie al blog “Libri di donne” [http://libridonne.splinder.com], “Un albero cresce a Brookliyn” ho poi scoperto, nel corso della lettura, di averlo già letto in prima media e, presumo, abbandonato dopo poche pagine.

Il brano che mi ha fatto ricordare di aver già affrontato questo libro è stato il seguente:

Francie era convinta che nella biblioteca vi fossero tutti i libri del mondo e si era ripromessa di leggerli tutti. Ne leggeva uno al giorno, in ordine alfabetico, senza saltare i meno interessanti. (...) Francie era una vera lettrice” (pag. 30)

Ho scritto “presumo” di averlo abbandonato perché non ricordavo affatto come finissero le vicende di Francie ma avevo comunque chiaro, a distanza di così tanti anni, il fastidio provato nel leggere di quanto fosse brava e diligente la Francie del libro che all’età di soli undici anni nel 1912 era capace di leggersi UN libro AL GIORNO indistintamente dal genere, e dall’autore - credo quindi si leggesse anche i trattati di epistemologia e quelli sulla teoria di Kaluza-Klein...

Alquanto saccente e presuntuoso presentare a una bambina della stessa età una così “speciale” e da tenere come esempio, se teniamo conto anche del fatto che Francie è povera e che la sua famiglia tira a campare con un padre semi-alcolizzato e nullafacente che sobbarca tutti i doveri famigliari a una moglie devota e piena di sacrificio cristiano, e che quindi una situazione del genere spinge il piccolo lettore a pensare quanto sia sfortunata la famiglia Nolan e a piangere con lei delle sue disgrazie.

Ci buttiamo sul pietismo, eh?

Va sottolineato anche che nelle primissime pagine l’autrice riesce anche a infilare alcune frasi orripilanti che mandano in maniera subliminale al razzismo, concetto che negli anni ’40 dilagava in Europa e anche in America per via della Seconda Guerra Mondiale. E se aggiungiamo anche che la stessa autrice era di origini tedesche...

Oltre alle continue distinzioni di ceto e origini famigliari, il romanzo affronta argomenti troppo adulti per dei bambini a cui il libro sarebbe destinato: perversione sessuale e ninfomania, pedofilia, corruzione, vizi malsani, omicidio, sesso prematrimoniale, violenze di vario tipo.

Detto questo, voi fareste leggere a un/a bambino/a un libro in cui una ragazzina viene assalita da un maniaco pedofilo che, abbassandosi i pantaloni, la aggredisce sul portone di casa e che, grazie all’arrivo della madre della prima, armata a tutto spiano, il signore in questione viene messo k.o. con un proiettile sparato proprio ...? Oppure in cui la zia di famiglia fa sesso con tutti gli uomini attraenti perché “le piace farlo”?

Io no. Anche se credo che quindici anni fa (cioè quando lessi per la prima volta il libro) una bambina avesse una mentalità diversa, meno matura in senso lato di adesso: sicuramente se fossi arrivata fino in fondo al racconto, quegli episodi li avrei registrati in maniera superficiale, senza forse capirli appieno (del primo probabilmente avrei decifrato solo lo spirito materno di una donna che salva la figlia a ogni costo), e avrei poi ricordato solamente la storia struggente di una famiglia povera a cavallo della Prima Guerra Mondiale, e le vicende di una ragazzina che diventa adulta fino a trovare la propria emancipazione e un uomo da amare. Oggi però le bambine di undici/dodici anni vanno in giro con la minigonna e guardano in maniera ammiccante i papà delle loro amiche (per fortuna non tutte), e loro come interpreterebbero quei brani? Subissate da ogni parte da provocazioni e licenziosità di ogni tipo, un testo del genere non farebbe altro che accentuare le schifezze che già vedono tutti i giorni in tv, così come per strada.

Sicuramente ne sconsiglio la lettura e la riproposta del suddetto nelle scuole elementari/medie. O almeno io non lo farò leggere ai miei figli se non quando andranno alle superiori.

E poi comunque l’hanno anche ristampato in una collana per adulti e non per bambini!

Riletto oggi, a 26 anni, gli do 6/10

E “Suite francese"? arriva, arriva! ;-)