martedì 30 ottobre 2007

"Harry Potter and the Philosopher's Stone" di J. K. Rowling

Dopo un mese di pausa, ieri ho ripreso in mano il primo volume della saga di Harry Potter per finire quelle trenta pagine una volta per tutte.

Considerazioni finali: mi sono divertita un sacco a leggere per la prima volta diligentemente un libro in lingua originale - prima, per impiegarci meno tempo e (soprattutto) sbattimenti con vocabolari inglese-italiano-italiano-inglese, mi “aiutavo” con la traduzione in italiano... emh, emh... - certo, la lettura di un romanzo per ragazzi è molto più spedita e leggera di un tomo di Charles Dickens, ma è comunque una grossa soddisfazione arrivare fino in fondo senza trucchetti di sorta.

Sarà anche per questo che ho trovato il romanzo molto divertente e piacevole, senza notare, rispetto a chi mi diceva di aver letto la traduzione italiana, un calo d’interesse trattandosi pur sempre di un libro per bambini, e non avendo intrecci di trama così complicati e avvincenti come nella letteratura “dei grandi”: troppo impegnata nel traslitterare tutte quelle parole e frasi nel mio cervello, non ho badato molto alle sottigliezze da adulti...

Anche se - e qua si sveglia la rompicoglioni che è in me - ho anch’io delle parti preferite in tutto il romanzo. Praticamente avrei fatto a meno dell’introduzione nella storia della Pietra Filosofale. Come dite? Che è proprio quella, la parte centrale del romanzo? Sì, però, rispetto a tutto il libro, molto grazioso e interessante nella sua semplicità con la presentazione di Harry Potter e della sua vita con i Muggles, poi nel castello di Hogwarts con i nuovi amici, i professori e quant’altro, quello della Pietra Filosofale è un elemento un po’ superfluo, tant’è che quello che scopre Harry sconfiggendo “chi sai chi” se lo poteva scoprire anche senza tutta quella cagnara finale con tanto di partita a scacchi vivente.

O no?

Resta il fatto che è chiaramente un episodio introduttivo che apre molte possibilità di sviluppo per la storia futura. Non a caso la Rowling ha messo la parola fine alla saga solo con il settimo volume [lo so che lo sapete tutti, ma io è la prima volta che leggo Harry Potter!].

Personaggi preferiti: lo sfigatello Ron, che è un po’ come il Tarquin della Sophie Kinsella, e Mrs Norris la gatta.

Bene.

Sono finita anch’io nel vortice di Harry Potter.

7/10

Harry Potter and the Philosopher’s Stone

J. K. Rowling

Bloomsbury Publishing PLC, £ 5.99 [metto il prezzo in sterline, very british…]

giovedì 18 ottobre 2007

Due in uno

Le seguenti recenZioni vagavano nel mio computer dalla fine di gennaio... era ora che mi ricordassi di pubblicarle!

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“Gli anni in tasca” di François Truffaut (1976): trama - gli ultimi mesi di scuola di un gruppo di bambini prima delle agognate vacanze estive.

Ve li immaginate 200 bambini urlanti a formare il cast di un film? Io ho subito pensato a un aneddoto di Hitchcock (raccontato nel libro-intervista di - guarda caso! - Truffaut, “Il cinema secondo Hitchcock”) in cui per uno dei suoi film, di cui mi sfugge il titolo, aveva pensato di utilizzare un considerevole numero di gatti da far scendere contemporaneamente da una scala; ovviamente la scena venne tagliata perché i gatti si facevano letteralmente gli affari loro e saltavano in tutte le direzioni.

Truffaut invece è riuscito a far recitare in maniera assolutamente naturale tutto il cast, mostrando la serenità e la spensieratezza affatto forzata di tutti quei bambini spesso trovatisi per la prima volta a recitare davanti a una macchina da presa.

[Comunque non sto dicendo che i bambini sono paragonabili a dei gatti, eh?]

E’ un piacere quindi seguire un film come questo tra episodi divertenti e altri drammatici, con l’unico comune denominatore il raccontare l’infanzia e come i bambini vedono la vita e gli adulti.

Ritenendosi già grandi, i bambini protagonisti ne combinano di tutti i colori, sempre padroni di sé stessi e in cerca di una posizione nel mondo. Altri invece, comportandosi allo stesso modo, quasi sfacciati, nascondono una situazione famigliare disagiata e violenta.

E’ in quel momento che il film si trasforma in una denuncia proprio verso quegli adulti che i bambini cercano fin dalle prime sequenze del film di emulare. A spiegare ai bambini perché situazioni simili accadano è uno degli insegnanti della scuola, che si fa carico di frasi piuttosto all’avanguardia e che dimostra molta più sensibilità di qualsiasi altro adulto entrato in scena fino a quel momento: “Il mondo è fatto da e per gli adulti. I bambini, purtroppo, non hanno voce in capitolo”.

8/10

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“L’uomo che amava le donne” di François Truffaut (1979): tra tutti i film di Truffaut visti questo è quello che inizialmente ho apprezzato di meno.

Forse, anzi, sicuramente perché Bertrand Morane, il protagonista, per tutta la durata del film non fa altro che cercare febbrilmente una nuova conquista femminile, compiaciuto di sé stesso per gli assurdi stratagemmi che attua in maniera mirabolante per arrivare a conoscere ogni nuova prescelta e talmente egocentrico da far schifo.

In un primo momento sono rimasta abbastanza infastidita dalla continua ricerca di donne, unica trama base del film sulla quale poi si inserisce la presentazione e l’analisi dell’uomo protagonista, quasi la donna fosse - non dico carne da macello - ma comunque un oggetto da analizzare meccanicamente, utilizzare e poi abbandonare. Certo, è tutto molto raffinato, come vuole lo stile di Truffaut, ma per una donna spettatrice potrebbe essere troppo!

Alla fine però, dopo le ultime due sequenze che chiudono il film, mi sono ritrovata a cedere il mio giudizio al lato positivo: Bertrand Morane muore, con sempre in testa il mito della “Donna”, e tutte le sue conquiste sfilano schiacciando l’erbetta sotto la quale lui riposa in pace.

Non è forse una celebrazione della figura femminile?

8/10

venerdì 5 ottobre 2007

Finalmente al cinema!

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“Hairspray” di Adam Shankman (2007): ometto dal principio il ridicolo sottotitolo della versione italiana - “grasso è bello” - perché non c’entra assolutamente una mazza.

“Hairspray” è la rivincita di tutte le diversità, ritenute tali dalla società, sulla normalità e il rigore comune in salsa musical anni Sessanta.

Si balla, si canta, ci si diverte, si ragione un po’ e alla fine l’integrazione avrà la meglio sulla rigidità impacchettata dell’America del 1962, che potrebbe comunque essere trasposta anche ai giorni nostri.

Non facciamone quindi solo un film sulla “rivincita delle grasse”, perché è riduttivo e sminuisce il tema centrale di tutta la piccola.

Si passa dall’integrazione razziale, al bigottismo religioso tipico dell’epoca, al non essere alla moda, al non rientrare nei canoni di bellezza, all’accettarsi per quello che si è e all’avere qualche chilo in più.

Due ore di pura spensieratezza con coreografie divertenti, ottima colonna sonora e canzoni orecchiabili. Dopo i primi minuti di film non puoi far altro che lasciarti risucchiare dal vortice canterino e seguire le musiche battendo il piedino a tempo felice e contenta.

Il musical farà un po’ il verso a “Greese” - brillantina il primo... lacca il secondo - ma non fa rimpiangere assolutamente le atmosfere del suo predecessore, essendo anche un storia completamente diversa (e diverso anche l’anno d’ambientazione, 1959 e 1962), ma anzi gli tiene testa egregiamente con un cast eccellente di cui segnalo John Travolta (sempre leggiadro e disinvolto!) e l’esuberante protagonista femminile Nikki Blonsky.

8/10

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“28 settimane dopo” di Juan Carlos Fresnadillo (2007): questa la situazione al momento della proiezione: martedì sera, h 20:10. Quattro spettatori in tutto, io e il mio moroso compresi. Si spegne la luce. Dopo venti minuti gli altri due astanti si alzano e se ne vanno. E hanno buttato così 7 € a testa. I coglioni.

........................

E’ il seguito di “28 giorni dopo”, visto al cinema nell’estate del 2003. Cambia però il regista, essendo quello originale, Danny Boyle, impegnato in pellicole più importanti sul lato tematico [vedi “Sunshine” uscito recentemente]. Che senso ha quindi appropriarsi di una storia scritta e diretta da altri ed elaborarla a proprio piacimento? Nessuno, infatti.

Fresnadillo riparte da 28 giorni dopo la diffusione del virus che ha contagiato tutto il territorio londinese (come Boyle) presentandoci i protagonisti del suo film per poi lasciarli e riprendere a seguirli 28 settimane dopo.

Se Boyle aveva diretto un film geniale per il suo genere, conducendo il gioco con pochi elementi - non si sa che virus sia, i personaggi vagano in un città deserta e così calma da far venire la tachicardia, gli infetti sono dei mostri assatanati che per vederli morti gli si deve fracassare a mazzate il cranio - Fresnadillo avendo ormai tutto il lavoro spianato, e poco da inventare, basa tutta la pellicola sull’horror e sulla nausea degli spettatori: inseguimenti, attacchi degli infetti, i sani che scappano, scorticamenti, smaciullamenti, morsi, arti tranciati, sangue, sbrodolamenti, vomito, sangue, sangue, sangue, sangue e sangue.

In sostanza c’è poca trama, anche se i primi dieci minuti introduttivi ambientati ventotto giorni dopo sono davvero d’effetto, soprattutto nel momento in cui il lui della situazione decide di salvare sé stesso abbandonando la moglie in balia degli infetti, mentre lei gli urla “Don, aiutaci!!!”. Una sequenza atroce che mi ha ricordato il romanzo “La scelta di Sophie”, ma non stiamo troppo a sottilizzare.

Nel primo film Boyle aveva inserito sì diverse scene truci, ma mantenendo comunque una certa classe nelle riprese, con qualche tecnica d’inquadratura innovativa, e mai scadendo nell’horror ripetitivo con una sequela di attacchi e fughe che dopo un po’ con tutto quel mangiarsi e quel sangue a fiotti ne hai abbastanza per un po’.

“28 settimane dopo” è proprio questo, e a un quarto d’ora dalla fine il regista c’ha pure calcato la mano inutilmente riducendo anche il finale a qualcosa di stomachevole e ridicolmente catastrofico.

Certo, fa paura e in più occasioni mi sono cagata sotto *pardon per la finezza*, ma il film di Boyle non aveva affatto bisogno di un seguito. Se poi così rozzo.

5/10

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Un angelo alla mia tavola

Janet Frame

Einaudi tascabili, Einaudi, 11 € [ma la mia copia l’ho acquistata nel 1996... quanto tempo!]

Janet Frame è la più importante scrittrice neozelandese dagli anni ’50 a oggi, eppure in Italia solo nel 1990 con l’uscita del film omonimo diretto da Jane Campion qualcosa ha cominciato a muoversi e a far sì che una parte degli undici romanzi di questa autrice fosse pubblicata. Poi più niente. Tant’è che oggi in catalogo si trovano solo un paio dei suoi titoli.

Troppo poco per un’autrice del suo calibro, che è riuscita in questa autobiografia divisa in tre volumi (che l’Einaudi ha racchiuso in un unico tomo) a descrivere sé stessa, a raccontarsi con così tanto acume e delicatezza allo stesso tempo; un processo, quello autobiografico-psicologico, non facilissimo se si pensa che Janet Frame ha vissuto dai 21 ai 29 anni d’età [1945-1953] rinchiusa in un manicomio, ha perso così gran parte della giovinezza a causa di medici ottusi che avevano scambiato la sua enorme sensibilità e timidezza in schizofrenia.

Sottoposta a qualcosa come duecento elettroshock e scampata per un caso fortuito alla lobotomia (durante la degenza in ospedale Janet viene insignita di un premio letterario, grazie a un libro che aveva precedentemente pubblicato), si libera di quel periodo oscuro della sua vita e riprende un’esistenza normale.

Il tutto raccontato in questi tre romanzi, dall’infanzia con le tre sorelle e il fratello, il padre e la madre che fanno i salti mortali per permettere a lei e alle ultime due sorelle di studiare e forse diventare insegnanti, passando sempre a scuola come in famiglia per una bambina “diversa”, solitaria, troppo timida e sognatrice sui libri che le permettono di viaggiare con la mente; per proseguire agli anni giovanili e al periodo passato in manicomio, otto anni però che la Frame cerca di spiegare - forse inconsciamente - come tutto sommato voluti, resasi conto che non poteva fare altrimenti:

“[...] mi trovai ad assumere la parte a cui più ero abituata, quella della persona passiva la cui vita viene pianificata per lei mentre lei, per paura di essere punita o di suscitare reazioni, non osa rifiutare.” [pag. 470]

E infine la maturità vera e propria raggiunta a trent’anni e descritta nell’ultima parte, in cui Janet decide di lasciare la Nuova Zelanda e di partire per l’Europa con l’intento di raccogliere materiale per un nuovo libro, ma con il segreto desiderio di trovare finalmente un posto tutto suo nel mondo e di diventare qualcuno in maniera dignitosa.

Combattuta però continuamente tra il vivere e il “farsi” vivere dagli altri, si troverà a prendere dolorose decisioni in completa solitudine e a scavalcarne altre con forse troppa leggerezza - come scappare (!!) da un uomo italiano conosciuto in Spagna dopo aver accettato passivamente la sua proposta di matrimonio - ma ad ogni modo la Frame riesce orgogliosamente alla fine dell’autobiografia a sottolineare di essere finalmente una Persona.

Un libro di non facile lettura, molto complesso anche per l’enorme quantità di citazioni e rimandi letterari che la Frame fa suoi per spiegare la sua vita. Un libro comunque incantevole, soprattutto per la prima parte che ripercorre l’infanzia tra gli anni Venti e Trenta, e toccante, forte per un’esistenza così incredibile.

Janet Frame è morta di leucemia nel gennaio del 2004...

[Questo libro fa parte de "La sfida dei libri non letti". Clicca.]

giovedì 4 ottobre 2007

Direi che è ora di aggiornare...

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Slam Dunk Deluxe 7: finito il flash-back sul rapporto Mitsui-basket, il cui finale con lui in lacrime nel momento in cui rivede l’allenatore Anzai - “La prego... io voglio giocare a basket” - è un po’ stucchevole a parer mio, il numero si trascina un po’ per le lunghe con pochi momenti esilaranti (uno tra i pochi è la presentazione dei quattro giocatori più forti dello Shohoku secondo la dolce Haruko, e in particolare quella di Rukawa con lui che si appisola in bicicletta e tampona un’auto in sosta :-D).

Verso la fine entrano in scena due...? tre...? personaggi nuovi, di cui ho vaghi e nebulosi ricordi: tra i passaggi in campo e i tecnicismi ho fatto un po’ di confusione.

In sostanza un numero un po’ così.

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Emma 6 - meno 2 alla fine: che numero!!! già la copertina mi ricorda molto le atmosfere dei libri di Dickens e si intravede, fra la boscaglia alle spalle di Emma che zampetta nell’oscurità notturna, il cattivo, complice nonché classica presenza dei feuilleton Ottocenteschi.

Durante una serie di momentanee ellissi assistiamo al rapimento di Emma dopo aver passato giorni tutt’altro che lieti tra i colleghi di lavoro, che la subissano di domande sulla sua relazione con William.

Di Emma non si parla più come di una ragazza taciturna, mite, ordinata, ma di una donna audace capace di tenere nascosto un fidanzamento che coinvolge un uomo ricco. Mentre le cameriere sognano ad occhi aperti, gli uomini rivelano il loro scetticismo sulla situazione.

Da notare che, mentre nei primi numeri Emma veniva spudoratamente corteggiata da svariati uomini conosciuti a Londra mentre lavorava dalla defunta Signora Stoner e di lei tutti dicevano un gran bene - “ma com’è bella, ma com’è raffinata, ma che charme!” - ora viene addirittura sospettata di aver ardito un piano contro la famiglia Molders e tutti i suoi dipendenti!

Catalizzatore di questi sospetti è Hans *sbaaaav*.

Perché mi piace Hans anche adesso che dà così addosso a Emma? Perché in maniera subdola si è insinuato nella sua vita facendole notare tutti i suoi più impercettibili cambiamenti; perché si tiene da parte e apre bocca solo quando deve dire qualcosa di utile alla svolgersi della vicenda; perché senza di lui non ci sarebbe stata la scena cruciale in cui Emma e William si rivedono dopo essersi persi, per forza, di vista. Perché Hans serve a Emma come trasposizione vivente della sua coscienza che ha sempre bisogno di essere “spronata”. E’ un po’ la “vocina interiore” di ognuno di noi. E, diciamolo, è anche un po’... figo [scriviamolo in piccolo, va’].

Probabilmente Hans non entrerà mai nel vivo del racconto, non sarà mai protagonista, ma senza la sua presenza non ci sarebbe stato (IMO, ovviamente) un espediente verosimile per far si che Emma si accorgesse della propria maturazione psicologica, nel bene e nel male.

Oltre al rapimento di Emma, che si ritrova una lente degli occhiali scheggiata (e per uno che non vede nulla senza occhiali è come vedersi portar via un braccio, credetemi!), un altro colpo di scena è la scoperta dei nomi dei fautori dell’inghippo, che se ne stanno in panciolle a riderci su.

Uno di loro - il Signor Jones - ha poi un acceso scontro con William, già pompatosi di brutto per andare dal suocero a dirgli della rottura del fidanzamento. E’ una sequenza che non mi è piaciuta molto, talmente esagerata che le espressioni dei due, insieme a quella della signora Jones in un angolo, non riescono a star dietro alle parole e all’enfasi della situazione, risultando abbastanza statiche. E che dire della vignetta che chiude il discorso tra i due? William e suo padre digrignano i denti come i cani...

Però questa “svista” a Kaoru Mori la possiamo concedere, dai.

Non credo però che il rifiuto di William a condurre all’altare Eleanor serva a qualcosa.

Jones e il visconte sono pronti a tutto pur di vedere i rispettivi figli sposati, anche se dubito che il secondo ne sia felice, ma anzi nasconde qualcosa di più oscuro.

Infine, non ho capito una cosa: nella quart’ultima pagina del capitolo 43, chi è la bionda vestita da odalisca che si fa la manicure? Non ditemi che è Arthur calatosi completamente nel romanzo “Il prigioniero di Zenda”!

P.s.: Cecilia, poi mi devi spiegare che è il mismatching... *__*

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Anatolia Story 1 (di 28): il manga, la cui serializzazione è terminata ormai ai tempi dell’arca di Noè, ma io grazie a mia sorella lo sto leggendo a scrocco solo ora (gh gh gh), narra di Yuri quindicenne risucchiata dal mondo odierno a quello fatto di intrighi e oscuri poteri degli Ittiti del 2000 a.C..

La sfortunata teen-ager è stata scelta come sacrifiZio umano, dopo attenta ricerca, perché casta, pura e perfetta per essere macellata in nome del dio Teshub.

Perché tutto ciò? Perché la regina cattiva Nakia vuole far sparire tutti i possibili eredi al trono e far in modo che l’unico a esserlo sia suo figlio, ma per mettere in moto tutta questa cagnara deve ingraziarsi il dio con un sacrifiZio umano.

Yuri viene però salvata in extremis da un misterioso giovane: Kail Morsili, che poi altri non è che uno di quei famosi possibili eredi al trono.

Divenuta una sua concubina e protetta - Yuri infatti ha spiegato al ragazzo la sua sventura - la ragazza si trova quindi segregata nel palazzo del suo salvatore, pena essere di nuovo messa alla gogna. Nel frattempo i due, più altri comprimari, dovranno cercare il modo per far tornare a casa la prima nel Giappone del 1995.

Tra alti e bassi, e qualche espediente ridicolo che mi ha fatto cadere un po’ le braccia, il manga è esclusivamente per un pubblico femminile e possibilmente non della veneranda età di (quasi) ventisei anni [sì, io... -__-].

Tutto sommato però è abbastanza piacevole, soprattutto grazie all’erotico rapporto tra Yuri e Kail: il secondo se la vuole praticamente trombare a più non posso. Ma lei è casta e pura e sta pensando al suo fidanzatino in Giappone, quindi giammai concederà le sue grazie! almeno per ora, ma già alla fine dell’episodio Yuri si accorge che il boyfriend nipponico non ce l’ha manco più in mente e che il suo unico pensiero è Kail. Vabbeh.

Questa caratterizzazione psicologica spicciola e i salti di palo in frasca sono il difetto del manga. Infatti in un unico numero (il primo poi!) sono successe già troppe cose, e c’è il rischio che il tutto si trasformi in una storia superficiale.

E, giusto per fare la pignola - come mio solito - anche i disegni non sono perfettissimi.... ma in fin dei conti la trama è scorrevole e ci si fa anche qualche risata.

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Lady Oscar 4: sperperare è l’unica attività di gradimento della Regina di Francia. Maria Antonietta infatti, delusa e insoddisfatta dal fasto in cui vive, cerca di colmare il classico vuoto di chi ha tutto ma non ha niente scialacquando allegramente tutto il denaro che entra a corte.

Ma già il popolo freme e gli stessi sudditi a Versailles si lamentano per i favori che l’immatura regnante concede alla sua favorita Contessa di Polignac.

In realtà Maria Antonietta vuole solo trasporre la propria felicità sugli altri aiutandoli con tutti i mezzi a sua disposizione.

Peccato che, per fare ciò, usi il denaro del popolo e non si accorga che intanto quest’ultimo sta letteralmente morendo di fame...

E Oscar, impavida come sempre, ha già compreso come l’atteggiamento frivolo della Regina possa portare a gravi conseguenze in tutto il regno.

Alla fine del volume breve rientro in scena della mia preferita: Rosalie.

La giovane sfigata ha pure perso la madre investita da una carrozza, e chi ci era seduto dentro? Ma la Contessa di Polignac!

Così Rosalie, accecata dal dolore, cerca di intrufolarsi a Versailles per vendicare la madre. Solo che sbaglia casa e finisce nel castello di Oscar. -__-

Ma le due discorrono un po’ e la nostra eroina decide di aiutare Rosalie introducendola a corte.

.............

Purtroppo non posso leggere come procede l’inserimento in alta società di Rosalie, sfiga volle che mi manca il n. 5 [oltre ai seguenti: 2-7-13-16].

Ma Lucca Comics è in agguato!

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Querelle di Brest

Jean Genet

Net, 9.80 €

Un marinaio omicida, Querelle, segreto oggetto di desiderio del suo capitano Sablon, si lascia andare a un calvario di esperienze attraverso le quali spera di trovare la propria identità: si concede a un proprietario di Bistrot, ruba l'amante al fratello, denuncia Gil, un assassino di cui si è innamorato, e infine supplica il suo capitano di sfogare su di lui i peggiori desideri perversi.

Difficile lui, o non l’ho capito io?

L’ho finito di leggere solo pochi giorni fa e non so come descriverlo.

Sicuramente abbastanza sconclusionato. C’è chi elogia lo stile di Genet, ma io l’ho trovato insostenibile: attraverso una prosa molto raffinata inserisce vocaboli di forte impatto che smontano l’atmosfera “colta”. Indubbiamente per ricordare che i suoi protagonisti appartengono al mondo grossolano dei marinai e dei manovali di porto, ma personalmente non l’ho trovato, come metodo narrativo, poi così accattivante.

In fin dei conti è un romanzo poco interessante e nemmeno l’elemento omo-erotico stuzzica l’attenzione del lettore.

Mi è andata male, ero in cerca di un libro un po’ pruriginoso e invece mi è capitato questo volume da sorbire con noia.

P.s.: questo libro fa parte di quelli che ho scelto per la sfida “Book to movie challenge”. Clicca.

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Espiazione

Ian McEwan

Super ET, Einaudi, 12 €

A tredici anni un amore che sboccia può sembrare un plagio. Una ragazzina che assiste a una violenza può convincersi di aver riconosciuto il responsabile e far condannare un innocente, rovinandolo e rovinandosi. Perché tutta la vita sarà segnata dalle conseguenze. La ragazzina crescerà, diventerà una scrittrice, ma non si libererà del peso dell’ingiustizia inferta a un innocente, alla propria sorella innamorata e in fin dei conti anche a se stessa.

Memore del McEwan di “Il giardino di cemento”, stomachevole cronaca dell’occultamento del cadavere materno da parte dei figli adolescenti che si danno poi, tra di loro, a dubbie pratiche sessuali a colpi di crudeltà e sadismo, pensavo di ritrovarmi in una storia simile.

Invece solo il personaggio della tredicenne Briony accomuna “Espiazione” a quel precedente romanzo incentrato sul passaggio dall’infanzia all’età adulta.

Briony è solo l’elemento scatenante di una storia tristissima e tormentata, di un amore negato e dell’impossibilità di trovare rimedio allo sbaglio da lei commesso.

Briony è una ragazzina perfida e ingenua al tempo stesso che distrugge la noiosa esistenza di chi la circonda affermando di aver visto qualcosa che in realtà, dopo aver raggiunto la maturità psicologica, si rivelerà per lei stessa un errore madornale; un equivoco impossibile da aggiustare nemmeno a distanza di anni, perché ormai l’arrivo del secondo conflitto mondiale ha disgregato maggiormente quelle stesse vite che fino a qualche pagina prima seguivamo attraverso un continuo cambio di punti di vista.

Oltre la metà del libro è infatti incentrata sul giorno che ha cambiato la vita a Briony e a chi le era vicino in quel momento: ogni capitolo segue ciascun personaggio analizzando e mostrando come un semplice accadimento possa essere interpretato da ognuno in modo diverso, e per questo, forse, cadere in errore a causa della propria suggestione.

I continui cambi di vista sottolineano come McEwan sia in grado di creare un complesso gioco di specchi e di differenziare sapientemente ogni personaggio.

Ma la parte migliore, nonostante sia brevissima rispetto a quella iniziale che spiega l’antefatto e fa prevedere le conseguenze, è secondo me la seconda incentrata sui due innamorati divisi dalla guerra e, prima di tutto, da Briony.

Dal punto di vista del ragazzo seguiamo i suoi pensieri, il bramare la donna amata, il sognare una vita con lei, il ricordare i pochi momenti passati insieme; tutto tristissimo e struggente considerato che i due non sanno quando, a causa della guerra, riusciranno finalmente a rincontrarsi.

E a nulla serve la fantasia di una ragazzina (ora donna) ad inventare un lieto fine per la storia raccontata. E’ ancora un modo per infierire sulle conseguenze del suo sbaglio, piuttosto che cercare con il raccontare un finale diverso la propria espiazione...

8/10

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Aggiornamento sui Nightwish: è in ascolto il loro ultimo album, se riesco settimana prossima faccio un post a parte solo per loro.