venerdì 30 marzo 2007

"Il giardino delle vergini suicide" di Sofia Coppola (1999) e "Thumbsucker: il succhiapollice" di Mike Mills (2005)

"Il giardino delle vergini suicide": una storia decadente in cui ne faranno le spese le cinque (mica tanto) vergini sorelle del titolo.
Ma perché si suicidano? La stessa domanda ritorna anche dopo aver visto il film, ché già il libro da cui è tratto (“Le vergini suicide” di Jeffrey Eugenides) non dà informazioni, a parte l’incomunicabilità tra le ragazze – legate fra di loro da un rapporto quasi morboso - e i genitori ottusi; così non si comprendono assolutamente le ragioni che spingono il quintetto a morire coronando, definitivamente, con l’horror il finale del film.
Vogliamo allora ricondurre la causa al solito disfacimento dei valori americani post-Woodstock (ci troviamo negli anni ’70), al moralismo dilagante e ormai obsoleto per i giovani moderni?
Ai soliti temi vecchi e abusati, allora.
Se fosse così, ma in fondo lo è perché non trovo altre spiegazioni, il libro e di conseguenza il film si incamminano a braccetto nel vasto mondo dei prodotti artistici senza invettiva.
Da una regista che ha saputo creare un film come “Marie Antoinette”, mi sarei aspettata un esordio più promettente. Ma forse è solo per via del brutto soggetto, che avrà causato anche la lentezza mortifera del film è una sequela di dialoghi ammorbanti.

5/10

"Thumbsucker: il succhiapollice": il diciassettenne Justin sta per finire il liceo, ma a causa del rapporto conflittuale – o addirittura asettico e quasi assente – con i genitori si succhia il pollice continuamente, somatizzando in questo modo le difficoltà famigliari e il tormentato periodo adolescenziale.

Attenzione! quando in una recensione appaiono insieme le parole conflitto, adolescenza e genitori, mentre guarderete il film state certi che vi dovrete sorbire le solite magagne del caso.

Ma contrariamente, qui vi è una piega inquietante del solito filmetto generazionale: Justin viene convinto, su consiglio degli insegnanti e in parte dai genitori, ad assumere psicofarmaci per combattere lo stato di torpore in cui conduce la sua vita.
Al contrario di Superman con la kryptonite, a Justin gli antidepressivi producono una scossa di adrenalina che si ripercuoterà, oltre che sulla sua vita relazionale, anche sul suo rendimento scolastico.
Ma se la banalità nel film sembrava scongiurata, da quel momento purtroppo si precipita nella denuncia all’operato scolastico e all’abuso di quei farmaci distribuiti come caramelle nelle scuole americane, all’incomprensione genitori-figli (ancora?), alle difficoltà degli adolescenti, al crollo psicologico dei quarantenni frustrati e bla bla bla.
Si poteva fare di meglio, e il finale porta ad una detonazione di immani cazzate: Justin è guarito è corre felice e contento verso l’università, mentre i genitori e il fratello si stringono in un tenero abbraccio guardando il loro “ometto” volare verso il futuro.
Coronano questo ca-po-la-vo-ro del cinema indipendente (e mi pareva strano...!) i dialoghi a volte incomprensibili (premio Oscar a quelli pronunciati dal redivivo Keanu Reeves: ogni volta che parlava, tutti a chiedersi “Ma che cazzo avrà voluto dire?!”) e le melodiose sinfonie cantate dal coro delle voci bianche che ti massacrano il cervello già dai titoli di testa.

5/10

[non me ne vogliate se ho svelato il finale, ma tanto chi se lo guarda ‘sto film? io non avevo scelta, era compreso nella rassegna del cineforum]

martedì 27 marzo 2007

"300" di Zack Snyder (2007)

Tratto dall’omonimo graphic novel di Frank Miller (qui pubblicato col titolo “Trecento” da Magic Press) è un film spettacolare sotto tutti i punti di vista.
Nonostante non ami molto l’uso spropositato di computer grafica, devo ammettere che in questo caso ne risulta un film stratosferico, coinvolgente e grandioso senza scadere nella mediocrità visiva delle americanate a “La leggenda degli uomini straordinari”.
I “trucchetti” danno alla storia un’atmosfera leggendaria e fantastica, e ogni sequenza non è mai priva di potenza ed eroismo.
Le due ore di film si caricano fin dai primi minuti per sfociare in orgasmiche battaglie in cui non è importante la quantità di sangue che scorre (ce n’è infatti poco) per dare l’idea dell’epico, ma bensì la rabbia feroce dei guerrieri che combattono corpo e corpo, le urla, la maestosità di lunghe carrellate in cui un solo soldato ammazza sei avversari; si finisce per tirare un sospiro di sollievo, dopo un bombardamento visivo del genere, soddisfatti che i “nostri” ne escano (quasi) sempre immuni in un tripudio di esaltazione guerresca e patriottica.

Inevitabile trovare in una storia simile più che un omaggio al valoroso popolo dei greci antichi (ché infatti la storia non è molto fedele), un’auto celebrazione di quello a stelle e strisce…

Premettendo la mia ignoranza riguardo alla precedente trasposizione cinematografica di un altro graphic novel di Miller, “Sin City” (né visto né letto), la particolarità di “300” sta anche nel ricreare fedelmente in celluloide gran parte delle tavole originali – usate quindi a mo’ di story board.
Inoltre il continuo uso di rallenty riproduce filmicamente la “staticità” del fumetto [anche se è un termine riduttivo, perché esistono numerosi esempi grafici che dimostrano come in un fumetto ci possa essere più movimento che in un film animato], quell’impressione di momento colto all’improvviso in cui uomini che corrono si fermano a metà del salto, un cavallo che si imbizzarrisce rimane a mezz’asta; “300” non si discosta dalla sua fonte originaria ma tenta brillantemente di riprodurla sul grande schermo in un continuo rapportarsi, sottolineandone anzi la sua appartenenza natale.
Non di rado poi capita di vedere in una inquadratura degli elementi di contorno in primissimo piano, mentre la scena vera e propria si svolge oltre quelli; questo perché, mentre in un film, per contestualizzare la scena, si usa la classica carrellata, nel fumetto non è possibile e ci si avvale quindi di “stratagemmi” come quello appena citato per far sì che il lettore possa capire in una sola vignetta l’azione e il luogo in cui questa avviene.
Il regista avrebbe potuto astenersi da questa tecnica, usando quelle usuali per un film, ma, fatto pregevole, anche per questi particolari resta legato alle sue radici di ispirazione.
I dialoghi poi sono molto brevi e potrebbero benissimo stare in un baloon, peccato solo per il doppiaggio italiano, troppo meno enfatico e sentito rispetto all’originale.
Comunque un piccolo difetto (colpa poi dei doppiatori e non degli attori) che non abbassa il mio giudizio finale.

9/10


Curiosità: nel film vi si trova anche un riferimento, direi non proprio casuale, al manga "Berserk", e in particolare al festino dei persiani condotto da un uomo travestito da "capro". Nel manga è infatti presente un capitolo in cui appare un uomo nelle medesime condizioni, e sia l'ambientazione che i personaggi sembrano aver ispirato in larga parte il regista Snyder.


sabato 24 marzo 2007

Fumetti e manga

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“Emma” n. 3: non so voi ma a me sembra di vedere un film più che leggere un manga. I primi piani muti che si avvicinano ai pensieri dei personaggi, il taglio della tavola, la luce crepuscolare, i tempi d’attesa, ogni fattore concorre a creare quell’atmosfera filmica alla quale manca solo la colonna sonora.
Tutto è poesia in questo manga, è poesia il gesto di Eliza che fa scivolare placidamente sull’acqua del fiume le sue dita, le spalle di William e Eleanor che si sfiorano per caso, la riservatezza e gli sguardi mai diretti di Emma…
La calma continua ad essere l’elemento predominante, ma ogni tanto questa viene sconvolta: come era già successo per l’introduzione del personaggio di Hakim con tanto di elefanti, in questo numero la festa organizzata dalla servitù, con cui ora Emma lavora, dà un tocco (forse un po’ troppo) euforico alla vita della lunga schiera di camerieri/e che abbiamo visto all’opera e ligi agli ordini poche pagine prima insieme alla stessa Emma.
In precedenza ci era stato infatti mostrato, in un alternarsi, lo svolgere delle giornate dei ricchi padroni di casa contrapposto a quello tutt’altro che monotono dei loro servitori – come succede nel film “Gosford Park” di Robert Altman.
Da notare come la sequenza del classico pic-nic con gita in barca dei ricchi di una volta, abbandoni completamente le sfumature grigiastre e malinconiche che avvolgono sempre la vita della gentry, per un chiarore abbagliante.
Nessuno sviluppo per la storia d’amore negata tra Emma e William se non che, mentre lei ricorda con dolore i bei momenti passati con lui, il secondo cerca invece di dimenticarla definitivamente (con non poca fatica però...).
C’è però un nuovo e piuttosto piacente personaggio maschile che guarda con curiosità Emma. Chissà…!

P.s.: navigando in cerca di informazioni sull’anime omonimo, ho trovato questo sito italiano: http://emmaromance.altervista.org/ è ancora in fase di costruzione ma promette bene. ^^

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“Caro fratello” n. 1-4 (serie conclusa) di Riyoko Ikeda: riesumato dall’archivio personale, la mini serie dell’autrice di “Versailles no bara” si rivela a una seconda, più attenta e soprattutto matura ri-lettura una storia tutt’altro che frivola – come invece me la ricordavo erroneamente…
La quattordicenne Nanako si appresta al suo primo giorno di liceo, e intrattiene una confidenziale corrispondenza con un giovane universitario che aveva tenuto una serie di ripetizioni nella sua scuola. Sarà a lui che racconterà, nelle missive, la nuova esperienza scolastica.
L’ambiente liceale (interamente femminile) è per Nanako una completa scoperta: si rivela essere contaminato da invidie, cattiverie e odio reciproco tra le compagne; anche la più pura delle amicizie può rivelarsi essere solamente di comodo o addirittura trasformarsi in qualcosa di morboso.
Inizialmente, presa dall’entusiasmo per la nuova vita da adolescente, non ci fa troppo caso, ma quando anch’essa comincia ad essere presa di mira dalle compagne per essere riuscita ad entrare nell’ambita e selettiva sorority (il corrispettivo delle fraternity maschili nelle università americane) sorgono in lei, di conseguenza, i turbamenti tipici di quell’età.
Lungo i quattro numeri di cui è composta la serie, seguiamo la crescita di Nanako durante il primo anno di liceo; un avvicinarsi all’età adulta strettamente collegato all’esperienze scolastiche, in cui una predominante sarà la scoperta dell’amore.
Così come in “Versailles no bara”, l’ambiguità sessuale (rappresentata da un paio di compagne di Nanako viste dalle giovani studentesse come degli idoli e degli ipotetici “fidanzati”) è presente anche in questo manga, e sfocia a metà racconto in omosessualità.
L’argomento è trattato però con così tanta naturalezza e in modo graduale che non ha nulla di scabroso; peccato però si faccia marcia indietro nell’ultimo numero, dove una serie di agnizioni fanno sì che l’amore fra donne non si concretizzi e addirittura venga negato alla base: fra le tante cose, ad esempio si scoprirà che le due studentesse androgine intrattenevano serie e durature relazioni con coetanei maschi
Nonostante un eccessiva attenzione per colpi di scena e ansie dei vari personaggi, presentati con vera e propria angoscia che si dipinge sui volti, sfondi psichedelici (a mimare la psiche) e reazioni un tantino esagerate, questa serie riesce però ad analizzare l’animo femminile in maniera tutto sommato completa e veritiera, e soprattutto lo fa con il disegno - alla faccia d chi ritiene il fumetto un mezzo tutt’altro che adatto per argomenti di questo tipo! - e attraverso una storia di crescita vicina al romanzo di formazione.
Il tratto della Ikeda è molto adatto, con le sue linee leggere, a questa storia di donne; la sua bravura è sicuramente da approfondire, mi sono decisa infatti a proseguire con il famosissimo “Versailles no bara” di cui avevo visto solo l’anime.

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“Nana” n. 30: chi ha capito il discorso d’amore tra Yasu e Miu, alzi la mano. A me è sembrata una conversazione iniziata tanto per dare aria alla bocca.
A parte il sopraccitato sproloquio [quante volte avrò inserito questa parola nelle recenZioni scritte per questo manga?!?] ormai elemento fisso, in questo ultimo episodio la Yazawa ha imparato una nuova tecnica narrativa: avete presente nei film quando i personaggi hanno dei “flash mentali” che gli ricordano fatti avvenuti nel passato? e questi si presentano come discorsi con voce fuori campo con l’eco, o materializzazione a mo’ di nuvolette con l’intera scena che avviene lì dentro? [se qualcuno riesce a spiegarlo meglio si faccia avanti, che io sono in difficoltà… ^^] ecco, la Yazawa per farci capire che l’ha imparato bene ha seminato flash back di questo tipo praticamente in tutto l’albo. Che brava che è, vero?
E sarà proprio uno di questi flash-back a salvare Nana O. durante un attacco d’asma. Infatti Ren, memore dell’insegnamento di pronto soccorso di Yasu (“Se Nana avesse un attacco d’asma, falle respirare anidride carbonica – E dove la trovo? – Semplice, quando espiriamo emettiamo anidride carbonica”), si limona Nana. Commovente.
I lettori romantici intravederanno in questa scena l’amore che prevarica qualsiasi ostacolo diventando l’unico mezzo di salvezza: “Quando non ci sei, mi manchi come l’aria”.
Per me invece è tutta roba patetica.
Shin e Reira si sono definitivamente lasciati, e mentre Takumi placa (testuali parole della traduttrice!) Nana K. agitata all’inverosimile per aver saputo di quei due cuori infranti, le finte foto scandalistiche di questi ultimi vengono pubblicate su “Search”.
Nana K., cretina com’è, pensa solo al suo nuovo ruolo di fidanzata (?), moglie (?) in carica di Takumi, e chissenefrega dell’orda dei fans assatanate che la vogliono morta.
Colpo di scena finale con un flash-forward (la Yazawa s’è fissata con gli stop-spazio-temporali) abbastanza criptico in cui Nana K., in compagnia della figlia, rivede Takumi.
Cosa sarà successo…?

P.s.: le pagine extra non le leggo manco morta.

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“Strangers in Paradise – nuova edizione” n. 7: un bellissimo numero che ci riporta al primo incontro tra Francine e Katchoo sui banchi di scuola, e in cui si intravede anche un giovane Freddie.
Ci sono pagine divertenti e ironiche, ma anche molto commoventi in cui si parla di amicizia, sogni e le difficoltà di una vita troppo premature e assurde per un’età in cui non si è ancora “adulti”.
Il racconto per ora si conclude con la fine del flash-back per ritornare alla sera in cui Francine aspetta suo marito al ristorante e vede per caso Katchoo.
Il resto dell’albo è costituito da un parodia del telefilm “Xena” di cui Terry Moore era fan, e in cui le nostre eroine prendono il posto di Xena e l’aiutante Olympia (in realtà Gabrielle). Divertente, ma avrei preferito leggere il prosieguo della trama principale.

Il tratto di Moore è in continua evoluzione, e questo non fa altro che giovare alla perfezione del disegno e delle espressioni dei personaggi (guardate ad esempio quelle della signora Peters – mamma di Francine - a pag. 24-25), quindi non mi resta che continuare a consigliarvene la lettura!

P.s.: per chi fosse interessato esiste anche un sito internet ufficiale www.strangersinparadise.com da guardare assolutamente l’animazione d’apertura.

martedì 20 marzo 2007

"Ho voglia di te" di Luis Prieto (2007)

[Non vi preoccupate, giuro che è stato solo un momento di debolezza...]

Il film non è iniziato nemmeno da dieci minuti che già Tiziano Ferro ulula sulle note di amori perduti e le ragazzine in sala cantano.
Step manca dall’italica patria da due anni e che sarà mai successo in tutto questo tempo??? Che fine ha fatto Babi? Chi è quella moretta che vuole fregare la benzina a Step? Con chi ha “scopato” la sorella di Babi mentre era in preda a deliri tossici? Il padre di Babi ha davvero un’amante? La madre di Step è malata o ha solo avuto un’indigestione di cozze? Step è riuscito a entrare nel mondo dello spettacolo perché è raccomandato, oppure perché è raccomandato?
Questi e altri strazianti e amletici quesiti ci vengono posti nelle due ore successive, in un susseguirsi di dialoghi di un’ingenuità imbarazzante, completamente privi di spessore, per i quali non si è tentata nessuna miglioria rispetto a quelli originali del libro.
Tutta la stupidità di quest’ultimo è ricopiata in versione celluloide, calcando la mano su aspetti troppo maturi per una fascia di pubblico (quella dai tredici - ma anche meno – anni in su scelta per il film) troppo giovane.
Sicuramente ormai i giovanissimi di oggi subiscono passivamente qualsiasi cosa guardando la tv, ma arrivare ad inserire un tentativo di stupro e delle scene di sesso con nudo integrale e tanto di mosse pelviche quando si sa già quale tipo di pubblico ci sarà in sala, mi sembra una scelta studiata a tavolino veramente di cattivo gusto.
Oltre a queste cadute di stile (in realtà una riconferma perché già presenti nel libro), l’intero cast o è incapace oppure sottotono, come Scamarcio che sembra recitare per dovere più che per piacere con un’espressività monotona e impassibile (la stessa della locandina).
E monotona è anche la colonna sonora che, oltre al sopraccitato ululante Tiziano Ferro, è totalmente ripetitiva e invadente: i personaggi non fanno nulla senza accompagnamento musicale.
Il resto della confezione usa e getta prevede montaggio, fotografia e regia da telefilm di bassa lega.
Non manca qualche momento di ilarità generale, ma non si capisce se per pena o per effettiva comicità.

Curiosità: il finale del libro è stato ribaltato a favore di un melenso happy-end, forse per accontentare le teen-agers deluse da quello vero.

N. C.

domenica 18 marzo 2007

"Notte prima degli esami" di Fausto Brizzi (2005)

No. Non è quello nuovo, è quello vecchio.

Ambientato nel giugno 1989, il film segue le ultime settimane da liceali di un gruppo di ragazzi fino alla vigilia dell’esame di maturità.
Ma lo si può considerare davvero un remake di quegli anni ’80?
La colonna sonora potrebbe sembrare a un primo ascolto l’unica cosa azzeccata, ma poi ti accorgi che sono state scelte delle hit non del 1989, com’era logico, ma addirittura di sette anni prima: esempio lampante è “Should I stay or should I go” dei Clash uscita nel 1982 e, tanto per mettere i puntini sulle iiii, faccio notare inoltre che i suddetti nell’’89 si erano sciolti da ormai tre anni; la ricostruzione di quel periodo è piuttosto blanda e si insiste nel porre l’attenzione su degli aspetti (come le musicassette piantate in ogni inquadratura) pensando che siano proprio quelli a fare la differenza e che senza non sarebbe un film “anni ‘80”.
Ma è come vedere un normalissimo racconto di oggi che punta i riflettori su una qualunque maturità scolastica, se non fosse per qualche paio di jeans a vita alta e l’assenza di cellulari et connessione ad internet.
Ci sono poi tutti gli stereotipi usuali che vanno dal secchione, alla bella e impossibile, al professore che si rivela un amicone, allo sfigato, fino all’amore per il compagno, non ricambiato, che è un classico del periodo passato sui banchi di scuola e affrontato da qualsiasi film del genere.
Da una carrellata di consuetudini e facezie simili ci si aspetterebbe che anche il finale non sia da meno e che tutti vissero felici e contenti volando via nel cielo come la Sandy e il Danny Zuko di “Grease”, e invece no. No perché un bel colpo di scena a dieci minuti dalla fine riassetta le pochezze dell’intera pellicola, e in fondo è un film da prendere “un po’ così”, recitato da cani, diretto peggio, ma che ti fa tornare in mente con nostalgia quel periodo [anche se sono nata nel 1981 e di quel decennio ne ho visto solo la scia perché troppo piccola…].
La prossima volta però mi guardo “I ragazzi della III C”.

5½/10

martedì 13 marzo 2007

"Sonata a Kreutzer" di Lev N. Tolstoj

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Opera della piena maturità, tutta pervasa dal fluire delle passioni, “Sonata a Kreutzer” – che deriva il suo titolo dall’omonima sonata per violino e pianoforte di Beethoven, sulle note della quale ha origine la relazione “proibita” – descrive il tragico degenerare di un rapporto amoroso, dalla passione iniziale all’indifferenza, fino alla gelosia, all’odio, al delitto.

Non mi piace la letteratura russa, non riesco a entrare nelle storie raccontate nelle sue pagine, troppo introspettive e prolisse nella loro analisi; ma questo lungo racconto di Tolstoj finalmente rappresenta l’eccezione.
Vi ho trovato tanto dei miei pensieri sul rapporto tra uomo e donna, qualora sia segnato da amore-odio, e come questo possa agire sul matrimonio (indipendentemente dalla denuncia sociale che fa da contorno a questo romanzo).

Pozdnyšev, il protagonista, durante un viaggio in treno, demolisce i luoghi comuni sull’amore coniugale – basato solo sulla sensualità - e rivendica la vera natura della donna – creatura tutt’altro che sottomessa - di fronte a dei compagni di viaggio inorriditi da siffatte considerazioni antimorali.
Questo preambolo serve a Pozdnyšev per analizzare in modo lucido gli ultimi rivolgimenti della sua vita, causati proprio dell’amore ambiguo per la moglie e dalle azioni di quest’ultima indotte dal puro desiderio sessuale.
L’intero racconto di Pozdnyšev è costituito da continui dualismi, dal dibattersi tra sentimenti etici e impuri; fino all’ultimo rimugina sui suoi atti ma, cosa che ho constatato anche in altri romanzi russi, quando decide di agire, lasciando da parte gli arrovellamenti cerebrali, lo fa abbandonandosi totalmente alle emozioni più impreviste e primordiali, provocando così conseguenze disastrose e forse troppo eccessive per un adulterio tramato alle spalle di un matrimonio in cui non c’era e non c’è mai stato amore, ma solo attrazione carnale e odio reciproco: macchia col sangue, in maniera plateale, il finale del libro in uno scoppio di rabbia feroce magistralmente descritto.
Ma non è forse l’atteggiamento consono per un uomo tradito? Non si conforma egli stesso alla massa dei beneficiari del “delitto d’onore”? Lui, che si era prodigato sin dalle prime pagine ad aprire gli occhi ai suoi ascoltatori sulla falsa moralità dell’epoca…
Così si divide fino all’ultimo tra finta onestà e realtà – quella offuscata dal perbenismo – e si preoccupa, mentre arriva la polizia, di infilarsi almeno le pantofole sui piedi scalzi, perché “è ridicolo andare senza scarpe”.
L’apparenza, la forma impeccabile è quella che conta, e Pozdnyšev chiede scusa per essersi spinto oltre e l’ultima parola che pronuncia, anche a noi lettori e non solo per l'unico ascoltatore rimasto in sua compagnia, è “perdonatemi”.

“Sonata a Kreutzer”
Lev N. Tolstoj
Universale economica – I classici, Feltrinelli, 6 €

sabato 10 marzo 2007

"Saturno contro" di Ferzan Ozpetek (2006) e "Borat" di Larry Charles (2006)

“Saturno contro” di Ferzan Ozpetek: C’è qualcosa che non quadra nell’ultimo film di Ozpetek, che già ci aveva abituati ai suoi poliedrici personaggi ne “Le fate ignoranti” – omosessuali, cornuti, ricchi sopra le righe che vivono tutto con serenità – ma in questo film si è rischiato l’accumulo di storie, in una trama corale in cui non sempre tutto viene considerato adeguatamente.
A metà film lo si nota ancora di più: l’elaborazione del lutto, elemento scatenante dell’intera pellicola, crea una stasi narrativa che potrebbe inizialmente far credere ad un finale imminente, questo però arriverà dopo un’ora di incertezze nella quale i diversi personaggi non si sa bene cosa debbano ancora fare.
Vanno avanti per inerzia, tra pianti, disperazione e incertezze esistenziali, cercando di sistemare i propri casini ed eliminare i vizi e le tentazioni.
In questo modo non tutte le storie, per forza di cose, vengono portate a termine in maniera sensata; molti dei personaggi dicono sì e no quattro battute in croce (uno fra i tanti il ragazzo con la torta: che ci sta a fare lì? ah, porta la torta!) a favore invece di quelli interpretati da attori ben più famosi, ma non per questo più importanti per bravura; ché gli esordienti sul grande schermo Ambra Angiolini e Luca Argentero credo valgano quanto Accorsi e compagnia [Ambra Angiolini aveva già recitato in quella pietra miliare di “Favola”, ma lasciamo stare va’…].
Comicità riuscita sì, ma… a volte sa troppo di artificio, di battuta costruita a tavolino, non naturale; come poi tutti i primi piani che scavano, scavano e scavano nell’animo tormentato dei protagonisti con un Stefano Accorsi incipriato e imbellettato con quell’aria sofferente da cane bastonato. Al decimo lungo primo piano BASTA!
Si parla di troppe cose (suicidio, droga, eutanasia, lutto, crisi famigliari, ecc…) ma alla fine tutto è accennato, non analizzato in modo da spingere lo spettatore a farsi una propria idea.
E poi vorrei capire: perché le storie di Ozpetek devono sempre avere a che fare con media borghesia, appartamenti modernissimi, suppellettili all’ultima moda in una pomposità troppo esibita? Vorrà forse dire che “anche i ricchi piangono”?

n. b.: la colonna sonora vale la pena di essere ascoltata, ed è stata composta da Neffa ("io e la mia siiiignoooriiiinaaa..."). Davvero una bella scoperta!

“Borat – Studio culturale sull’America a beneficio della gloriosa nazione del Kazakistan” di Larry Charles: il più brutto e inutile film che abbia mai visto, e non lo sto dicendo per ingigantire le cose ma è un dato di fatto.
Dopo dieci minuti dall’inizio si è già capito l’intero meccanismo del film, in cui l’80% della comicità è ripetitiva, scontata; le battute e le gags più innocenti inducono sempre e comunque lo spettatore a pensare al sesso e affini e si fa un uso spropositato di doppi sensi. Un esempio? L’interminabile sequenza in cui Borat e l’accompagnatore kazako finiscono per picchiarsi completamente nudi nella stanza d’albergo: dovrebbero essere solamente due uomini che se le danno di santa ragione, ma c’è una continua volgarità, un’insistente allusione al rapporto sessuale anale e ad altre pratiche simili, e ci si preoccupa inspiegabilmente di censurare con un bollino i genitali di Borat, quando invece quelli dell’accompagnatore sono sempre in vista e anche di più.
E non sono né bigotta, né suscettibile a “certe” tematiche, sono solo disgustata da una pellicola che dovrebbe fare satira politica affrontando argomenti fastidiosi per l’America, dissacrando il perbenismo diffuso, e si riduce invece a confezionare una storia stupida zeppa di ironia volutamente spinta e fine a sé stessa, oltre la quale non c’è e non si può leggere la denuncia tanto sbandierata dalla critica.
C’è modo e modo per massacrare divertendosi la politica di un paese, in questo caso si è scelta la via della bassezza a cui nemmeno i Vanzina sono mai arrivati a tanto.
Lo stesso Borat è troppo sopra le righe, troppo eccessivo per far sì che lo spettatore lo ascolti con un po’ d’attenzione durante le sue chiose che, contornate da tutte quelle buffonate, sanno solo di ridicolo.

Si salva solo la bravura degli attori: essendo un finto documentario sull’America girato dal giornalista kazako Borat, i (finti) intervistati sanno essere davvero naturali riuscendo sempre ad essere credibili nella loro sorpresa e sbigottimento.

Le urla favorevoli dei critici a questo film sono per me incomprensibili, poi se leggo cose di questo tipo [dal sito http://www.ilfoglio.it/uploads/camillo/boratnyc.html ]:

I due kazachi, completamente nudi, a metà del film sono protagonisti di una lunga scena (che non racconto) di rara efficacia comica.

Ma soprattutto:

Gli interlocutori non sanno che Borat è un comico, credono davvero di rispondere alle assurde domande di un giornalista kazaco.” [????????!!!!! questo giornalista non ha proprio capito nulla…]

Beh, d’ora in avati mi terrò ben lontana dai loro giudizi ingannevoli.

martedì 6 marzo 2007

"La donna dello scandalo" di Zoë Heller

Cosa succede quando ci si innamora della persona sbagliata? E cosa si rischia quando questa persona è un adolescente e tu sei la sua insegnante quarantenne? Tutto, ma certe volte lo scandalo, la prigione, la distruzione della famiglia non bastano a fermare la passione travolgente di una donna che crede di aver sacrificato la propria giovinezza sull'altare di un matrimonio precipitoso. E così, abbandonandosi al lato più trasgressivo e devastante dell'amore, Sheba Hart è finita sulle prime pagine di tutti i giornali, ha perso il lavoro, il marito e i figli, restando sola con un'amica forse un po' troppo possessiva, la più anziana collega Barbara Covett. E sarà proprio Barbara a raccontare a un'Inghilterra indignata la storia della caduta di Sheba, rivelando, senza volerlo, un'altra e più inquietante ossessione erotica, quella segreta spirale di gelosie e desideri repressi che hanno innescato la bomba a orologeria dello scandalo. Torbido e drammatico, esilarante e provocatorio, il caso letterario che ha scioccato e fatto discutere l'Inghilterra.

Da questo libro è stato tratto il film "Diario di una scandalo" con Cate Blanchette e Judi Dench; candidato a 4 nominations per gli Oscar 2007 non ne ha però vinto nessuno.

Una lettura non facile inizialmente, troppo piatta e lineare nella narrazione di un amore proibito e delle sue conseguenze catastrofiche, ma è bastata l’ultima riga che chiude il romanzo a farmi rivalutare completamente il mio giudizio; forse troppo tardi - non tutti riusciranno ad arrivare alla fine di una storia di cui in realtà di aspetti scabrosi e ossessivi ne è esplicitata una piccolissima parte (e non come erroneamente riportato in seconda di copertina), in cui non succede praticamente nulla se non nei brevi paragrafi in cui Barbara narra degli incontri clandestini tra Sheba e il giovane alunno; in cui la quasi totalità della narrazione è scandita da lunghe digressioni personali della narratrice sulla sua condizione di donna sola.
Ma la bellezza del libro – se siete riusciti ad arrivare fino in fondo – vi accorgerete che sta nel “non detto”, negli sporadici accenni inseriti proprio in quelle divagazioni con noncuranza, di cui non ci si fa quasi caso; sono quei piccoli segnali che nascondono sentimenti e ossessioni latenti che se interpretati correttamente danno una visione agghiacciante della storia, e arrivati all’ultima pagina lo scandalo non sarà più una relazione tra una donna adulta e un ragazzino, ma qualcosa di più ambiguo e oscuro.
E a quel punto di chi è che non ci si deve fidare? Chi è da mettere sotto accusa?


“La donna dello scandalo”
Zoë Heller
Narratori stranieri Bompiani, Bompiani, 16 €

domenica 4 marzo 2007

"Diane Arbus - vita e morte di un genio della fotografia" di Patricia Bosworth

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"Ci sono cose che nessuno vedrebbe se io non le fotografassi": questo è lo spirito che muove lo sguardo ostinato e curioso di Diane Arbus. Prostitute, emarginati e freaks sono la carne viva con cui la grande fotografa newyorkese nutre il suo vorace talento, perennemente in bilico fra repulsione e familiarità, fra morboso voyeurismo e desiderio di conoscenza. Nata e cresciuta in un'agiata famiglia di commercianti, se ne distaccherà ben presto, ansiosa di arrampicarsi quanto più in basso possibile nel ventre oscuro di una New York grottesca e sterminata, gonfia di bizzarri personaggi, di indifferenza e disperazione.

Per fortuna che Shainberg, regista di “Fur – un ritratto immaginario di Diane Arbus”, si è solo ispirato alla biografia in questione. Se anche nella realtà la figura di Diane Arbus fosse stata così placida e anonima come Shainberg l’ha letteralmente trasformata, sarebbe stata una grossa delusione.
Dalle pagine di questa biografia emergono in realtà vita e ideali di una donna che è sempre andata controcorrente, e mai ha cercato di omologarsi alle mode nate durante gli anni in cui si andava affermando come fotografa (dalla metà degli anni ’50 fino all’anno del suicidio – 1971).
Una psicologia profondamente complessa la sua, attratta fin dall’infanzia dagli esseri bizzarri cui è proibito guardare, i freaks – gli scherzi della natura (nani, omosessuali, gemelli, nudisti, ermafroditi, storpi, prostitute, minorati mentali, ecc…).
Saranno proprio questi i soggetti principali dell’intera sua produzione fotografica, oltre a personaggi famosi mai però immortalati in modo canonico, ma in modo da mettere a nudo i sentimenti più nascosti e improvvisi, la realtà invisibile agli occhi.
Nelle tre parti in cui è suddivisa la biografia viene ripercorsa tutta la sua vita, con maggiore attenzione per l’ultimo ventennio in cui la sua ascesa nell’oscuro e nel vietato si è fatta sempre più incontrollabile.
Durante il racconto vengono analizzate le varie tappe che l’hanno portata a quel tipo di arte, scandagliando la sua vita privata (il rapporto con i genitori e i fratelli, quello morboso con il marito sposato in giovane età, con gli amici, le figlie, ecc…) e inserendo numerose dissertazioni sulla cultura dell’epoca e sulle trasformazioni che l’America affrontava in quegli anni; vengono anche brevemente illustrate le vite dei numerosi colleghi di Diane e dei fotografi a cui lei stessa si ispirò prima di trovare il suo stile inimitabile.
Questi elementi aggiuntivi possono risultare di poca importanza, dato che in quei brani spesso si perde di vista il vero soggetto della biografia, ma in loro assenza non si riuscirebbe ad avere un quadro generale della situazione e soprattutto a capire, o tentare di capire in parte i meccanismi che spingevano ad agire in quel modo Diane Arbus.
Pur essendo un buon libro, davvero interessante per gli appassionati di fotografia, si sente tuttavia la mancanza di un apparato iconografico: la Fondazione Arbus (fondata dalla primogenita di Diane), così come aveva rifiutato a Shainberg per il suo film la riproduzione di qualsiasi fotografia all’interno della pellicola, nel 1984 – anno di uscita del libro della Bosworth – aveva già agito in modo analogo.
La stessa fondazione oggi non ha ancora portato a termine lo sviluppo dei migliaia di negativi lasciati dalla Arbus, e non ha nemmeno reso pubbliche le altrettante migliaia di fotografie ancora inedite. I proprietari si giustificano dicendo che è per evitare la saturazione del mercato delle opere della Arbus.
Resta il fatto che queste decisioni sono un ostacolo per chi cerca più informazioni su questa fotografa (pochi sono i documenti che la riguardano) e un ostacolo anche per la resa finale della biografia in questione.

“Diane Arbus – vita e morte di un genio della fotografia”
Patricia Bosworth
Collana 24/7, Rizzoli, 18.50 €