martedì 30 gennaio 2007

Mostre: "Amore e psiche. Arte e seduzione", "Tamara de Lempicka" e "Buzzati racconta - storie disegnate e dipinte"

“Amore e psiche. Arte e seduzione – da Renoir e Chagall, a Picasso e Warhol”
Villa Ponti, Arona (No)
dal 17 dicembre 2006 al 25 febbraio 2007

Un’indagine sull’amore e sulle modalità di rappresentare questo sentimento segna questa abbondante esposizione, non troppo didascalica, ma lasciata un po’ “al caso”, al trasporto emotivo che i quadri esposti trasmettono nel visitatore, che può così sperimentare direttamente quale differenza ci sia tra una visione più celebrale e una maggiormente corporea e concreta della passione provata verso l’oggetto del desiderio.
L’oggetto in questione è la donna, rappresentata nelle più svariate forme che spaziano da quelle più classiche fino a quelle di stampo cubista o contemporaneo che farebbero inorridire le femministe più ferree (a simbolo: un bel paio di baffi a guisa di peli pubici, o un corpo in plastica totalmente stravolto in cui la vagina finisce per essere in cima alla testa visibile a tutti – mi è venuto in mente il carissimo Helmut Newton).
Diversi modi di concepire e trasformare in arte il sentimento umano più complesso, che rimane però immutato nella sua essenza.
Pochi, come già detto, i pannelli esplicativi e ad accompagnamento dei quadri e delle sculture, e quelli che ci sono non sono altro che dei brevi riassunti biografici che mettono grottescamente in evidenza come la sfiga abbia costellato in gran parte la vita degli artisti in mostra (suicidio/pazzia batte morte naturale 20 a 5). Si segue la scia dei sensi nei corridoi e nelle sale della villa e si esce con le idee ancora più confuse sulla parola “amore”.

P. S.: fra i numerosi dipinti ve n’è uno, minuscolo, di Tamara de Lempicka: “La bella Rafaëla”.


(mostra visitata il 31/12/2006)

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“Tamara de Lempicka”
Palazzo Reale, Milano
prorogata fino al 18 febbraio 2007

Mi aspettavo qualcosa di più soddisfacente da questa mostra, tenendo anche conto che in Italia è dagli anni ’50 che di questa pittrice non si sono più organizzate esposizioni monografiche.
Tante le cose che mi sono andate di traverso, a cominciare dal libero accesso ai dipinti: né un vetro alle cornici, né una transenna a limitare la vicinanza dei visitatori [non è pericoloso per l’incolumità di tutti quegli originali?]; le sale, causa enorme affluenza di gente (che gli organizzatori se lo potevano aspettare) e pareti ad angolo che spuntavano dal nulla e messe lì in modo poco ordinato, in alcuni punti erano davvero strette e si finiva a stare a mezzo metro dalla tela; le targhette dei quadri erano scritte a passo 2 e illuminate con lampadine da 1 volt; inoltre, capisco il voler approfondire le tematiche e i pittori a cui la Lempicka si è ispirata per le sue opere, ma dedicare un’intera sala ai vari di cui sopra, credo abbia tolto un po’ di… fervore emotivo alla mostra, che dal suo scoppiettante inizio è andata poi scemando in una serie di ultimi quadri di ispirazione cattolico-moraleggiante e nature – davvero – morte di una Tamara ormai fiacca e segnata dalla depressione.
All’inizio invece si può ammirare la Lempicka famosa per la sua attenzione ai particolari ritenuti trascurabili, quella degli anni Venti-Trenta, dove ogni elemento presente nella composizione serve a dare il giusto equilibrio all’intera opera: un ricciolo metallico, le labbra rosse, le unghie smaltate, i gioielli – quasi ogni soggetto ha al dito almeno un anello, le pieghe del vestito attaccato al corpo come una seconda pelle, scorci di paesaggi spettrali alle spalle degli uomini e delle donne ritratti che rimandano a una metropoli desolata in cui svettano mastodontici palazzi alla “Metropolis” di Fritz Lang e cieli plumbei, ma che visti nella loro totalità non sono nulla in confronto al corpo del o della protagonista che occupa quasi tutto lo spazio disponibile della tela talvolta a grandezza naturale, i nudi tanto voluttuosi e carnali nonostante tracciati con linee vicine al tubismo di Léger; elementi che nell’insieme compongono un’artista che ha saputo creare un suo stile ben riconoscibile e capace di segnare un’epoca non solo in modo artistico ma anche come modello di vita, riuscendo a conquistare l’intera Europa con la sua classe e la sua eccentricità.
Ma come detto in precedenza l’ultima parte della mostra, dedicata ai dipinti tra gli anni ’40-’50, non offre molto coinvolgimento visivo, forse anche per l’impressione di vedere dei quadri fatti in serie e senza verve.
Mancano anche i nudi più famosi come “Adamo ed Eva” o “Gruppo di quattro nudi”, e il bellissimo “Autoportrait” dove la stessa Lempicka in verde sfreccia sulla sua auto dello stesso colore (quest’ultimo perché purtroppo non concesso dai proprietari alla mostra).
Piccole mancanze e dettagli trascurati che fanno però la differenza…
Tuttavia non mancano filmati d’epoca, fotografie, disegni a matita, lettere autografe e oggetti personali originali che ampliano la visione dell’artista e che fanno tutt’uno con i dipinti esposti, mostrandola in tutto il suo fascino non ancora scemato.
Della parte dedicata ai pittori e artisti contemporanei a Tamara, mi ha solo sorpreso positivamente il trovare il dipinto “Donna alla finestra” di Antonio Donghi, ingiustamente sottovalutato dalla massa, le cui opere si possono però ritrovare nel film “L’amore ritrovato” di Mazzacurati sottoforma di tableau-vivant, e una lunga serie di fotografie di Jacques-Henri Lartigue come testimonianza storica e di costume del periodo più prolifico della Lempicka, appunto gli anni Venti e Trenta.

Curiosità: i biglietti d’ingresso sono consegnati (a caso, o forse in base al giorno della visita) in più esemplari, a me è capitato quello che vedete sopra il titolo col particolare di “Jeune fille en vert”.

(mostra visitata il 13/01/2007)

[All’uscita dalla mostra…] clicca!

“Buzzati racconta – storie disegnate e dipinte”
Rotonda di via Besana, Milano
prorogata fino all’11 febbraio 2007

“Il fatto è questo: io mi trovo vittima di un crudele equivoco. Sono un pittore il quale, per hobby, durante un periodo prolungato, ha fatto anche lo scrittore e il giornalista. Il mondo invece crede che sia viceversa e le mie pittore quindi non le “può” prendere sul serio. La pittura per me non è un hobby, ma il mestiere; hobby per me è scrivere. Ma dipingere e scrivere per me sono in fondo la stessa cosa. Che dipinga o che scriva, io perseguo il medesimo scopo, che è quello di raccontare delle storie. (Dino Buzzati, 1967)”

Per chi conosce poco o per nulla il Dino Buzzati disegnatore e pittore (quindi me compresa), la mostra allestita alla Rotonda di Via Besana a Milano riesce a dare un affresco completo del lato conosciuto da pochi di questo artista ritenuto dalla maggior parte solamente uno scrittore-giornalista.
Maggiore rilievo hanno nella mostra l’opera “Poema a fumetti” (rivisitazione in chiave fumettistica del mito di Orfeo ed Euridice) e la serie di dipinti (finti ex-voto) “I miracoli di Val Morel”; oltre ci sono numerosi schizzi preparatori per diverse opere compreso “Poema a fumetti”, pagine originali di diari, dipinti, fotografie, oggetti personali (tubetti di tempera spremuti a metà, pennelli ancora sporchi di vernice), tavole originali tratte dal romanzo per ragazzi “La famosa invasione degli orsi in Sicilia” (che avevo letto come compito alle medie e ne ero rimasta entusiasta), figurini per i costumi del balletto teatrale “Fantasmi al Grand Hotel” del 1960 e il famosissimo elogio alla città di Milano e al suo paese d’origine sotto le Dolomiti fusi insieme in un Duomo trasfigurato a montagna con guglie appuntite alla cui base, su un’erbetta verde, contadini stanno al lavoro con falci e balle di fieno.
Dipinti poetici, bizzarri e accomunati dal surreale, dagli incubi, il terrore, l’inquietudine, donne discinte con tacchi a spillo vagamente sadomaso, bocche lascive, vampire assatanate e fantasmi della notte, illusioni ottiche e comicità arguta ed intelligente racchiusa nelle didascalie che lo stesso Buzzati scriveva appositamente per i quadri e che, una volte lette, danno sempre uno scarto spiazzante sul significato iniziale delle opere e che ti lasciano a volte divertito e a volte piacevolmente interdetto.
Una bella mostra che, a mio parere, toglie anche un po’ di pregiudizi sul mondo del fumetto, difeso da Buzzati stesso che lo definiva, se fatto bene, un buon mezzo per diffondere cultura e arte; ma la mostra serve soprattutto a rivalutare il lato nascosto ma fondamentale dello stesso artista.

(mostra visitata il 27/01/2007)

martedì 16 gennaio 2007

"Una trilogia inglese" di Floc'h e Rivière - ed. La Repubblica

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I francesi Floc’h e Rivière firmano in coppia questa trilogia interamente ambientata in Inghilterra tra la fine degli anni ’40 e i primi anni ’50.
Tre storie caratterizzate dal tratto detto “linea chiara”: tecnica che prevede segni netti, nessuna ombreggiatura, ballons rettangolari e scenografia dettagliata in maniera maniacale (ad esempio suppellettili di ogni genere occupano i mobili presenti nelle vignette, anche nei punti più nascosti, le case sono disegnate mattone per mattone, l’abbigliamento è talmente curato da lasciare il lettore sorpreso).
I personaggi feticcio di Floc’h e Rivière sono la scrittrice Olivia Sturgess e il sosia di Groucho Marx, Francis Albany (in copertina).
Sono loro a condurre e risolvere i misteri che segnano le tre storie presenti nel volume, misteri soprannaturali o più semplicemente delitti perfetti.
Ma sono tre racconti in cui prevale una certa spocchia francese e, tenendo conto che la classe sociale protagonista è la media borghesia inglese notoriamente sofisticata, il mix è esplosivo (in senso negativo...). La summa di queste fastidiose impressioni la si può trovare nel primo racconto sottoforma di lettera illustrata, che va separato dalla trilogia vera e propria: Olivia, alla morte di Francis, scrive una lettera d’addio all’amico ormai scomparso in cui per venti pagine (tralasciando quelle composte da soli disegni) non fa altro che dire quanto era bravo Francis, quanto era intelligente, quante persone famose conosceva, quanto era questo, quanto era quello. Nervosismo alle stelle.
Dopodiché il mio encefalogramma è precipitato nella noia più totale nell’immergersi nei tre racconti successivi che leggerli è come vedere lo stesso episodio del Tenente Colombo per sessantacinque volte di fila, e ha avuto dei picchi di attività celebrale solo alla vista dei disegni che, come già accennato, sono il segno caratteristico di questa coppia di autori.
In conclusione, un fumetto che non mi ha entusiasmata molto.
Meglio concentrarsi sulle tavole.

sabato 13 gennaio 2007

"Apocalypto" di Mel Gibson (2006)



C’è chi dice che questo film sia ridicolo e chi invece lo esalta a capolavoro.
Personalmente lo definirei un buon film e basta, senza complimenti pompati né dure critiche negative, perché in fondo Mel Gibson ci sa fare, certo senza toccare le punte dell’olimpo, ma ha talento.
Destreggiandosi con velocità da un registro all’altro, dalla pace domestica nel villaggio dei Maya legati alla tradizione e in maniera simbiotica alla natura, fino a un’atmosfera completamente diversa in cui l’arrivo della tribù “evoluta” introduce violenza, sadismo e combattimenti all’ultimo sangue.
Da una storia però il cui fulcro è l’epopea di un popolo costretto a combattere il progresso, introdotto al suo interno anche da se stesso come l’altra tribù - quella cattiva, non ho trovato momenti epici pieni di poesia in cui viene elogiata la rivendicazione della tradizione, della fratellanza e il rispetto per la natura; è tutto molto accennato e la pecca del (comunque) bel film è l’aver focalizzato 2/4 di trama sulla fuga dell’eroe di turno, capace di annoverare le scene più spettacolari e di grande coinvolgimento emotivo per lo spettatore, ma dopo le quali sono palesi le troppe dimenticanze della sceneggiatura: che fine hanno fatto tutti gli altri personaggi? [sto sul vago... per chi non avesse ancora visto il film]
Delle lacune, queste, che riducono buona parte del film a puro intrattenimento visivo, piuttosto semplice, grazie anche ai dialoghi ridotti all’osso e nemmeno troppo impegnativi da seguire tramite i sottotitoli.
Un film quindi che punta più allo svago che al messaggio vero e proprio che appare in citazione all’inizio del film: “Una grande civiltà viene conquistata dall’esterno, quando si è distrutta dall’interno - W. Durant”.
E’ un peccato perché il finale riesce a riscattare il buon lavoro svolto dal regista, e a tornare sui suoi passi dopo aver prodotto un ottimo inizio e l’agghiacciante sequenza dell’arrivo nella città delle piramidi e del sacrificio, ma è talmente breve che non rende del tutto giustizia.
Ho l’impressione che Gibson abbia da subito avuto l’intenzione di creare un film capace di attirare l’attenzione sia di chi cerca contenuti validi, che chi invece un prodotto alla “Rambo”, per la serie “accontentiamo tutti così bisso il successo di botteghino de “La passione di Cristo”.
E il Mel così mi scade un po’...

7½/10

giovedì 11 gennaio 2007

"Molto prima dell'amore" di Andrea Mancinelli

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Termina (per ora) con questo romanzo la produzione letteraria di Andrea Mancinelli, e di scrivere che il suo talento è finalmente visibile non mi è mai passato per il cervello.
Può una storia al cui interno nemmeno il protagonista è adeguatamente delineato psicologicamente; in cui tutto è narrato in maniera superficiale, se non per aulici paroloni sparati lì a caso all’interno di citazioni filosofiche piene di banalità; in cui non c’è neanche un personaggio maschile ad avere “coraggio”, e si adagia mollemente davanti alla realtà invece di cambiarla; in cui la sbandierata amicizia che va verso l’infinito e oltre (quindi in paradiso) non esiste, non c’è e non è nemmeno rintracciabile fra le righe; in cui i modelli, a cui Mancinelli ha fatto riferimento durante la stesura della storia, sono fin troppo evidenti e non si cerca nemmeno di camuffarli; può una storia di questo tipo essere definita originale?
La vita è di per sé lineare, piatta, ma ogni tanto qualche scossone lo ricevono tutti, ma qui ci sono quasi trecento pagine in cui non un avvenimento viene raccontato con trasporto, con la gioia di vivere che i protagonisti sembrerebbero provare al loro accadere, ma che l’autore descrive con noncuranza e superficialità.
Un compito in classe riuscito male.

4/10


Molto prima dell'amore
Andrea Mancinelli
Romanzi e racconti, Baldini Castoldi Dalai, 13.80 €

martedì 9 gennaio 2007

"Baci dalla provincia" di Gipi - ed. La Repubblica

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Paesaggi umidi, desolati, case sfatte, piccoli borghi attraversati da enormi stradoni trafficati, violenza, malavita, la perdita, il dolore, l’amicizia infranta e l’adolescenza terminata bruscamente dalla guerra.
Questo dei racconti di Gipi mi è rimasto impresso, storie in cui sono quasi sempre presenti, o ne sono protagonisti, gli adolescenti. Vicende in cui tutto non procede mai per il verso giusto, in cui il disincanto, la dolorosa scoperta di come va in verità il mondo, segnano sempre il finale.
In tutti i racconti raccolti in questo volume (Baci dalla provincia [che contiene “Gli innocenti” e “Hanno ritrovato la macchina”]; Appunti per una storia di guerra; La mano morta; I due funghi) non ho mai trovato un barlume di speranza, nemmeno in “La mano morta”, racconto autobiografico in cui è Gipi stesso a raccontarci del timore ricorrente di perdere l’ispirazione e di ritrovarsi con la mano incapace di disegnare, morta.
Al centro della raccolta c’è “Appunti per una storia di guerra”, racconto che ha valso all’autore numerosi riconoscimenti, non sufficienti però per farlo uscire dall’”anonimato” del fumetto d’autore che poco interessa alle masse. Ma devo dire che, nonostante l’atmosfera per me opprimente (sottolineo sempre che è il mio punto di vista a parlare e che non ho certo pretese), è la più bella tra quelle presentate: l’amicizia che lega tre ragazzi ritrovatisi a crescere durante un conflitto mondiale, che nella realtà per fortuna (?) non è ancora accaduto, li porterà a scontrarsi con il mondo adulto e a cercare di capire quale sia il modo migliore per vivere senza alcun aiuto, soli in mezzo a tante tentazioni.
E se in “Hanno ritrovato la macchina” c’è tanto del mio stesso pensiero sul destino, che ognuno se lo costruisce da sé e che il libero arbitro esiste (ma sull’esistenza di Dio o meno, preferisco per ora sorvolare), non posso però dire che le storie di Gipi mi siano piaciute completamente.
Nel leggere è sempre prevalsa una sensazione di disagio, diversa da quella provata leggendo “David Boring e altre storie” di Clowes, perché qui fin da una prima lettura i racconti mi si sono appiccicati addosso e nelle storie raccontate non c’è il surreale che ogni tanto sbucava fra le righe di Clowes.
E’ per questo che le storie di Gipi non mi sono piaciute molto, per la capacità di sbatterti addosso verità mai romanzate.
Non sto dicendo che è meglio chiudere gli occhi e far finta di nulla, ma la capacità di Gipi di raccontare è molto d’impatto e di provare queste sensazioni non mi era mai successo prima, nemmeno con un libro,e devo ancora digerirle...
Sì, sono contraddittoria, lo so; resta il fatto che queste caratteristiche dell’arte di Gipi sono dei pregi e non difetti! Sono io ad essere ancora troppo colpita dalle emozioni provate.

sabato 6 gennaio 2007

"David Boring e altre storie" di Daniel Clowes - ed. La Repubblica

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David vive una vita apatica, se ne rende conto, ma ormai si è rassegnato a convivere con questo malessere.
Subisce tutto quello che gli capita, senza reagire in modo plateale, senza prendere nessun tipo di posizione; la sua noncuranza segna inevitabilmente i momenti più importanti della sua esistenza: viene abbandonato da diverse ragazze, perde volontariamente il lavoro, non riesce a concludere nulla. Simbolo della sua noia (non a caso il cognome di David è Boring), la sequenza iniziale in cui lo vediamo fare sesso con una donna della quale parla in modo asettico, mettendo palesemente in evidenza la sua indifferenza per l’atto che sta compiendo con lei.
Spiazza il suo punto di vista fin troppo diretto, ed è proprio lui a raccontare in prima persona in modo critico al lettore le sue ossessioni, i suoi vizi, le sue debolezze.
L’unica vera compagna di vita è la fedele amica Dot, una giovane ragazza anch’essa dall’esistenza tormentata a causa della sua omosessualità.
In una cittadina sterile e anonima, fatta di rigorosi palazzi, sprazzi di verde “squadrato”, vie deserte e tranquillità (solo) apparente, si susseguono le vicende di David, Dot e di numerosi comprimari non meno tratteggiati psicologicamente del protagonista e della sua amica.
Una storia divisa in tre atti che un sorprendente colpo di scena - o meglio, di pistola - ribalta completamente, intrecciando la vita di David ad altre di diverse persone, tutte in fuga da qualcosa, inserendo nel racconto il giallo alla “Dieci piccoli indiani” di Agatha Christie e la tensione incarnata in attacchi nucleari e batteriologici ad opera di diabolici terroristi e il passaggio dal 1999 al nuovo millennio.
La fine del mondo è vicina. Ma sarà proprio l’indifferenza di David a concludere con speranza il racconto.

Ottimi disegni in stile anni ’50, per un fumetto ambientato nel ’99, in cui ombre grigie inseguono i personaggi in ambienti essenziali in cui i pochi particolari evidenziano il loro cupo stato d’animo.
Condizione nella quale serpeggia quasi sempre un disagio, sottolineato anche dalla scelta di non far mai incrociare direttamente tra loro gli sguardi dei personaggi, fuggevoli e distratti.
Curioso come il racconto termini come un vero e proprio film con tanto di titoli di coda; e la struttura simil-film la si trova anche in alcune vignette interrotte come frame, che restano sospese e ne caricano la suspance (come l’ultima del primo atto a pag. 70).
C’è tuttavia della comicità volontaria nel racconto, ma il pessimismo che pervade nella quasi totalità della storia non è fastidioso e ne risulta così un fumetto diverso di cui consiglio la lettura.
Meno taglienti però le “altre storie”, se non per “La mamma d’oro”, storia surreale e disgustosa in cui il protagonista ripercorre la sua vita facendo la fine di “M, il mostro di Dusseldorf”.
Ritorna ancora il colloquio diretto del protagonista con il lettore in questo e negli altri brevi racconti (Caricature; MCMLXVI; Uno schifo di blu; Eyliner verde; I segreti della scuola d’arte), ma a mio parere Clowes dà il meglio di sé con le storie lunghe.

giovedì 4 gennaio 2007

"Un'ottima annata" di Ridley Scott (2006)


Un traccagnotto broker londinese (Rusell Crowe) eredita una villa con annesso vigneto in Provenza dal nonno passato a miglior vita; ma lui, già ricco e potente, che se ne fa di tutta quell’eredità? La vende infatti, ma per farlo deve recarsi sul posto.
Tra un “bicèrot de vin e l’alter”(*) rimembra il tempo che fu: guarda la piscina in giardino? e si ricorda di quando lì faceva il bagno col nonno; ispeziona la cantina? e si ricorda di quando lì ci stava il vino a fermentare; vede una poltrona di vimini? e si ricorda che lì il nonno ci si sedeva sempre sopra. Prevedibili sequenze causa-effetto ricoperte da una patina di melassa, durante le quali il sole sembra esser sempre lì-lì per tramontare (aka colori caldi, foglie che cadono, la brezza di fine estate, luce soffusa), ma non tramonta mai.
E in una storia di strazianti e diabetici ricordi, poteva mancarne una d’amore? E no, infatti il broker londinese, trasformatosi intanto da impettito uomo d’affari in campagnolo con canotta unta di sugo e zoccoletti di pelo, investe col suo bolide una franscese fanciulla e trova ricchi premi e “Cotillard”.
Si arriva ai titoli di coda a tarallucci e vino.

Ridley Scott dirige e produce - quindi se l’è suonata e cantata da solo - una vera e propria cagata, in cui compaiono anche una ragazza che si spaccia (?) per la figlia del vegliardo, spassosissime (???) gag a cui i fratelli Vanzina ci fanno un baffo, freudiani dilemmi esistenziali che (dovrebbero) indurre anche lo spettatore a farsi un esame di coscienza [dove sto andando? cosa sto vivendo?] e i pregiudizi Francia vs Inghilterra e viceversa.
Dov’è finito lo Scott di “Alien”, “Blade Runner”, “Il gladiatore”?
Ridley, ripigliati!

con tutto ‘sto vino mi è venuta la cirrosi

5/10

(*) tra un bicchiere di vino e l'altro

lunedì 1 gennaio 2007

"Eragon" di Stefen Fangmeier (2006)

Trasposizione del primo volume della saga scritta da Cristopher Paolini, cerca di emulare l’eccellente accoppiata Tolkien-Jackson con la tiritera sul bene contro il male.
Il biondo e profumato Eragon, strada facendo, trova un uovo dal quale sbuca Ilaria D’Amico nata per portare sfiga, morte e desolazione e per costringere il ragazzo a salvare il regno di Triffaldix dal male.
Che la forza sia con te Atreiu!
[Perché nel film c’è anche un po’ di Guerre Stellari e de La storia infinita. Di tutto e di più]
Evidenti i buchi di sceneggiatura - provate a riassumere qualcosa come 600 pagine in poco più di 100 minuti di pellicola - colonna sonora d’accompagnamento che parte ancora prima che sia successo effettivamente qualcosa; questo ammazza l’effetto sorpresa e la suspance: se mi fai iniziare una musichetta lugubre mentre Ilaria D’Amico ed Eragon giocano circondati da un’atmosfera bucolica, intuisco già che dietro l’angolo capiterà sicuramente qualcosa di brutto.
Nel complesso un film scontato e confusionario, in cui i personaggi sono poco più che macchiette per la scarsità di tempo ad approfondirne la psicologia, e nemmeno la computer grafica riesce a far diventare indimenticabile questa storia già vista.
Un plauso agli addetti al casting, che hanno impiegato un anno - e dico - un anno, per cercare il ragazzo giusto ad interpretare Eragon, e il meglio che sono riusciti a trovare è un incrocio tra il Cristopher Atkins di “Laguna blu” e Ryan O’Neal in “Love story”, con una limitatezza espressiva che sfiora il ridicolo. Mi chiedo: se la parte è riuscito a strapparla un elemento simile, tutti gli altri candidati come cazzo recitavano?
E sempre in tema di attori (?!), potete dire ad Ilaria D’Amico che quando una persona, o animale parlante che sia, sta per morire, si deve cercare di spirare tra spasmi più simili a dei rantoli che non a sospiri orgasmici?

5/10

P. S.: ah, buon anno a tutti!