domenica 30 luglio 2006

"Garage days" di Alex Proyas (2002)

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Sulla scia de “I Commitments” di Roddy Doyle (il libro, non il film, che non ho ancora visto), nella pellicola di Proyas si raccontano le disavventure di un gruppo di giovani che vogliono sfondare nel mondo della musica.
Molti i momenti esilaranti (soprattutto la sequenza delle allucinazioni!), aiutati anche da un montaggio veloce che fa uso di varie tecniche ultra-moderne; ottima la colonna sonora, che spazia dai Cure, ai Supergrass fino agli AC/DC, in un miscuglio di vari generi ben combinati fra loro.
Quello che però sminuisce tutto il film è il finale: dopo aver seguito le grottesche vicende dei cinque protagonisti, che insistono col dire che se vuoi fare rock devi comportarti da rock-star a tutti gli effetti, si cominciano però a vedere i primi tentennamenti: bebè in arrivo, scazzi vari, ripensamenti, depressione, ecc…
Tutto questo porterà ad un finale che penoso è dir poco! Gli ultimi minuti del quale sono dedicati ad una carrellata su tutti i personaggi con la voce fuori campo che riassume, a distanza di tempo, le successive loro mirabolanti gesta (“Memorieeeees…” - avete presente Barbra Streisand?).


6/10

giovedì 27 luglio 2006

"Uccelli da gabbia e da voliera" di Andrea De Carlo

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Dopo aver letto quasi tutti i libri di De Carlo (tranne gli ultimi tre), trovo strani gli elogi a profusione relativi alla bravura di questo autore, che resta secondo me piuttosto sopravvalutato.
I personaggi dei suoi libri si possono restringere in tipi prestabiliti che ritornano instancabilmente in ogni romanzo: il protagonista tipo per De Carlo è un giovane fra i venti e i trent’anni, spesso insoddisfatto della vita, insofferente, con amori travagliati alle spalle o che sta vivendo nel momento della narrazione, solitamente ricco con tendenze sinistroidi, di professione studente/pittore/fotografo/musicista/scrittore/impiegato/nullafacente.
Alla base dei racconti c’è la solita ricerca esistenziale: il protagonista si dibatte per trovare un posto nella società, continuando però a sognare un mondo utopico, sopra le righe, inesistente.
Tutti i romanzi di De Carlo sono così, e dopo averne letti più di dieci direi che può bastare.
Certo, ha uno stile di scrittura molto particolare e mai scontato; ad esempio “Uccelli da gabbia e da voliera” è scritto interamente usando il presente, tempo verbale che aumenta il ritmo del racconto facendolo diventare sempre più sincopato, frenetico, teso, soprattutto nei brani in cui assistiamo a degli inseguimenti dove l’oggetto è il protagonista, o in altri dove è lui ad inseguire qualcuno.
Ma non c’è altro che possa essere valutato positivamente in questo libro; ad aumentare il fastidio che mi è rimasto durante tutta la lettura, sono state le continue critiche gratuite e spesso retoriche riguardo l’Italia e più in particolare Milano, vista come una città sporca, schiacciata sotto una cappa di smog, violenta, assolutamente non sicura per viverci, ecc… e l’unico “complimento” che viene fatto al nostro paese è “E’ meglio di Disneyland!” (?!?).
Il libro è stato scritto nel 1982, più di vent’anni fa leggere critiche riguardo lo Stato italiano e la situazione politica dell’epoca sarà stato sicuramente molto duro e sorprendente, ma le stesse critiche, lette oggi, sanno solo di minestrina riscaldata.
Credo inoltre che De Carlo, abbia da subito impostato il romanzo come una sorta di sceneggiatura nell’ipotesi di trarci un film (come successe anni dopo per il suo primo libro “Treno di panna”, ormai facente parte del trash italiano…): tutti i dialoghi del libro sono strutturati con “lei dice - lui dice - io dico”, e le azioni dei personaggi sono descritte nei minimi particolari e perfino in ogni impercettibile e trascurabile movimento. Questo però, annoia eccome!
Altra pecca è il protagonista, che ha un modo di agire e ragionare assolutamente irreale: di fronte ai primi problemi e, soprattutto, alle prime vere responsabilità di vita, scappa; durante il romanzo prenderà svariati aerei e treni e si fermerà solo (momentaneamente) dopo aver trovato l’amore o una semplice attrazione sessuale per alcune ragazze o donne.
In questo modo però sembra ragionare solo col…

5/10

P. S.: da un autore di questo tipo non mi sarei mai aspettata di trovare nello scritto un errore madornale: a pag. 174 la ragazza con cui il protagonista si trova a letto si sfila delle calzette grigie, peccato che a pag. 173 fosse stato precisato, dallo stesso protagonista, che i piedi della ragazza erano nudi appoggiati sulla moquette grigia.

mercoledì 26 luglio 2006

"Gioco di donna" di John Duigan (2004)

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C’è di tutto in questo film: la classica storia d’amore che sfocia in un ménage à trois, la Seconda Guerra Mondiale, la Parigi trasgressiva degli anni ’30, le crocerossine, gli antinazisti, i sadomaso, eccetera, eccetera, eccetera.
Niente di nuovo, quindi.
Montaggio incerto, colonna sonora un po’ scadente, personaggi troppo carichi di emozioni che sfuggono al controllo dei tre interpreti principali, che non riescono a delineare al meglio le ricche psicologie a loro affibbiate; troppi i cambi di scena e veramente troppi avvenimenti narrati per un film di due ore: si rischia a volte di perdere il filo del discorso e ti chiedi se i protagonisti si trovano ancora in Francia, in Inghilterra o chissà dove.
Il rapporto lesbico tra Gilda e la spagnola Mia (rispettivamente interpretate da Charlize Theron e Penélope Cruz) è sulla falsa riga di quello tra la scrittrice Anaïs Nin e June Miller ne “Henry e June”; la fuga iniziale di Gilda dal dormitorio di Guy (il maschio del trio che passa pressoché inosservato) è un omaggio mal riuscito a “Jules e Jim” di Truffaut; il personaggio di Mia è troppo simile alla pittrice Frida Kahlo: fiori nei capelli, gambetta zoppicante. Però forse nessuno ha detto al regista che la Kahlo era messicana e non spagnola…
Il film poteva benissimo finire a metà, ché nel proseguire esaurisce pure le torbide scene di sesso e ci si annoia per altri inutili sessanta minuti.

6/10

martedì 25 luglio 2006

"La luna e i falò" di Cesare Pavese

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L’ultimo libro di Pavese l’ho trovato molto simile a “Il giorno del giudizio” di Salvatore Satta, entrambi affrontano una trama simile - il ritorno al paese natio con conseguente esame di coscienza verso il tramonto della propria esistenza - restando però su due linee di stile ben diverse.
Pavese riesce a inserire nel racconto degli aneddoti di vita vissuta molto interessanti, molti dei quali mi hanno fatto ricordare i racconti delle mie nonne; questo, nel libro di Satta, non c’era, tanto era un romanzo composto soprattutto seguendo il filo sconclusionato dei pensieri, il cui stile di scrittura non aiutava certo il lettore a stare al passo del narratore.
In “La luna e i falò” la desolazione e il pessimismo - che ricordano molto quelli di Satta - segnano solo in parte la narrazione; un minimo di serenità lo crea il protagonista nel momento in cui si affeziona ad un bambino maltrattato dai famigliari.
Ma per la sottoscritta, pur avendo dei punti di forza nello stile e negli aneddoti raccontati, questo romanzo finirà presto per l’essere dimenticato fra i libri a me non molto graditi. E’ un genere di libri, questo, che non mi entusiasma, forse perché, essendo il tema centrale del racconto il ritorno al passato con esame di coscienza finale, mi ricorda quanto io non sia propensa a “tirare le somme” della mia vita…

6/10

martedì 18 luglio 2006

"René Magritte - L'impero delle luci"

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Ho aspettato fino all’ultimo per visitare questa mostra dedicata a Magritte e allestita nella bellissima villa Olmo a Como.
Il prezzo irrisorio per accedervi comprende anche una visione mozzafiato degli interni della villa, lasciati il più possibile esposti e non coperti dall’allestimento.
Così, tra un dipinto e l’altro, è possibile ammirare i soffitti e le pareti riccamente decorati, abbelliti da enormi lampadari, statue e ornamenti di vario tipo.
Le opere di Magritte esposte sono più di sessanta, e si spazia dal primo cubismo dell’inizio degli anni ’20, secondo me troppo legato alle regole del movimento pittorico (i cubisti son tutti uguali…), ad oli, carboncini, manifesti, fotografie, lettere e oggettistica che hanno molti aspetti in comune col surrealismo, un surrealismo che, in rapporto con Magritte, è però concepito con segni ed espressioni create “ad hoc” dal pittore all’insegna di un’iconografia apparentemente banale (una mela, la classica bombetta, le colombe, la pipa, ecc…), ma che ha lo scopo di suscitare nel fruitore una serie di pensieri che lo porteranno ad arrovellarsi sul vero significato dell’opera, ma al quale non riuscirà mai ad arrivare pienamente, perché una delle regole portanti nell’arte di Magritte è l’osservare senza chiedersi troppi perché.
Molti dei suoi quadri mi hanno sconcertata e lasciata con un senso di angoscia, di inquietudine, dei sentimenti non gradevoli che hanno però contribuito a farmi capire la forza visiva di Magritte e a rimanerne affascinata.
Gli uccelli-foglia de “L’isola del tesoro” e “Il sapore delle lacrime” sono mostruosi, terrificanti; nel primo sgranano gli occhi minacciosi, spiccano un volo che non li porterà da nessuna parte perché inchiodati a terra dal loro stesso stelo, e sono in netto contrasto con la calma e la serenità del mare alle loro spalle e del cielo velato solo da qualche nuvola; nel secondo il solitario uccello è roso da un bruco che ha già lasciato ben visibile il cielo scuro oltre il suo busto.
La scala di “Irène o la lettura vietata”, così come le ali degli uccelli-foglia, non porta da nessuna parte e l’asetticità della stanza contribuisce ad aumentare un senso di ansia.
Le enormi dimensioni di “Il giocatore segreto” (152 x 195 cm) viste dal vivo danno sensazioni completamente diverse dal vederle riprodotte in formato “cartolina” sul catalogo: il dipinto riprodotto ha poca carica emotiva, si ha l’impressione di osservare i classici dipinti surrealisti senza guizzi; lo stesso invece visto dal vivo è molto d’impatto, la donna imbavagliata rinchiusa in una sorta di armadio (nel catalogo e definito invece come un “mausoleo”…) mi ha spaventata, anche perché è quasi a grandezza naturale, lo stesso vale per quei birilli enormi che sovrastano quasi tutta la tela, dai quali spuntato dei rami fra i quali fluttua una mastodontica tartaruga.
Mi ha invece infuso calma e serenità “L’estate”, con i suoi colori accesi e quella bandiera che sventola riflettendo il cielo terso oltre le mura del palazzo.
E guardando “Architettura al chiaro di luna” si ha quasi l’impressione, allungando il dito, di toccare e “sentire” i gradini della scala bianchi e netti in quell’atmosfera bluastra tipicamente notturna.
Non molto bella le serie di quadri dipinti con colori sgargianti e pennellate lunghe, profonde: mi hanno ricordato molto lo stile di Van Gogh, ma gli unici pregi di questa parte debole della mostra sono stati gli alberi-foglia di “L’incendio”, le ciminiere rosa de “L’intelligenza” - sempre abituati a vederle scure, dalle quali escono fumi tossici grigi e fuligginosi, qui sembrano quasi disegnate con la spensieratezza di un bambino - e i monoliti de “Le mille e una notte” che ricordano molto quello che si erge ne “2001- Odissea nello spazio” di Kubrick. Per quanto riguarda la donna de “La mietitura”, aveva ragione una bambina che è capitata vicino a me mentre osservavo il quadro: “Sembra di vedere i cotton-fioc (i batuffoli di cotone colorati, n.d.r.)”.
Curiose le metamorfosi: una carota che si sposa con una bottiglia dando vita ad un ibrido (che mi ricorda un missile o… una supposta).
Poi ci sono i classici oggetti magrittiani: la bombetta; la pipa; l’uomo in giacca e cravatta; una candela che invece di fare luce oscura tutto ciò che dovrebbe illuminare (“La fata ignorante”); i sonagli; le nuvolette bianche delle quali la summa è “La corda sensibile” voluttuosa, candida e perfetta; i cieli blu cosparsi di piccoli puntini bianchi: le stelle; le rose e le colombe.
Peccato però non fosse esposto il famosissimo “Il tradimento delle immagini” e “Golconde”.
E’ stata una bellissima mostra e un’occasione per vedere per l’ultima volta in Italia, così in blocco, tutte le oltre sessanta opere che dal 2007 verranno definitivamente esposte solo a Bruxelles.
Ricorderò di Magritte, oltre a tutta l’iconografia elencata più sopra, la sua firma piccola e tracciata sulle tele a volte di sbieco, quasi sotto sopra, con noncuranza, camuffata nel disegno e un po’ infantile nelle sua fluidità perfetta.

[mostra visitata il 15/07/2006]

venerdì 14 luglio 2006

"Chéri" di Colette

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Lo stile leggero, ironico e cinico di Colette, che ha da subito segnato le sue opere, è ancora presente in questo breve romanzo scritto vent’anni dopo la serie di “Claudine” pubblicata tra il 1900 e il 1903.
Il punto di forza di Colette, secondo me, è proprio il non essersi discostata molto dalle sue origini, maturando ovviamente nel corso degli anni, ma sempre con un occhio di riguardo al suo giovane stile che l’ha resa famosa in tutto il mondo.
In “Chéri” si ritrovano le classiche descrizioni psicologiche che scandagliano i personaggi, che non appesantiscono però lo scritto perché brevi e concise, senza fronzoli e mai patetiche, anche quando i pensieri più cupi dei protagonisti affollano le loro menti; a questo gradevole aspetto va aggiunta una maturità nello stile, collegata alle medesime descrizioni che, pur rimanendo molto profonde e dirette, sono più amare rispetto a quelle che si possono trovare nel ciclo di “Claudine”; inoltre, so bene che l’argomento trattato qui è completamente diverso, ma in “Chéri” ci sono le stesse battute allusive che alleggerivano gli scritti della prima serie di romanzi, solamente più composte, che si addicono meglio alla Léa di quest’ultimo romanzo che potrebbe benissimo essere Claudine invecchiata che ha perso la sua caratteristica sfacciataggine in favore, giustamente, di una dolce femminilità materna sovrastata però da una paura per la vecchiaia e il tempo che inesorabilmente passa.
Chi non ha invece paura del tempo è Chéri, il giovane protagonista che ha molto in comune con la Claudine originale, vezzeggiato e capriccioso.
Questo romanzo è la dimostrazione di quanto sia brava Colette nello scrivere le sue storie, molto autobiografiche, mantenendo nel corso degli anni la sua distintiva particolarità che non è mai banale e che non stanca mai.

8/10

giovedì 13 luglio 2006

"La febbre" di Massimo D'Alatri (2005)

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Ultimamente il cinema italiano lascia un po’ a desiderare, sembra che i nostri registi non abbiano più nulla da raccontare; Massimo D’Alatri infatti si butta sullo strausato tema generazionale in cui vagano giovani trentenni in preda ai dilemmi dell’età adulta.
E’ una storia semplice, quindi, quella che ci viene raccontata di Mario Bettini, interpretato dall’onnipresente Fabio Volo (l’uomo che vanta nel suo passato i più innumerevoli lavori), che viene però infarcita di effetti speciali - manco fossimo di fronte ad “Armageddon” - che non c’azzeccano niente con un film di questo tipo, che già dalle prime battute si dimostra essere il classico film italiano fatto di buoni sentimenti, storie semplici, vere, in cui ognuno ci si può rispecchiare.
Ovviamente non si poteva che cadere anche sui luoghi comuni: il datore di lavoro arcigno e invidioso di Mario Bettini (la febbre del titolo è infatti l’invidia), che viene da subito ripreso come un orco cattivo con le inquadrature dal basso verso l’alto; la mamma che non vuole lasciar crescere il figlio; il collega di lavoro che dopo una vita passata in ufficio muore non potendosi godere nemmeno la pensione; l’amico che va sempre contro corrente, bello e dannato; la cubista che ha anche un cervello; una critica alla società odierna oppressiva e ingrata; ecc…
E il messaggio qual è? Se t’accontenti di una vita grama e impostata da pecora del gregge, sei un fallito; se invece vivi la tua vita da outsider tirando a campare senza un lavoro, allora sei un esempio da seguire perché morirai felice anche se “in bolletta”, ma non importa perché chi è quello sfigato che si accontenta di un lavoro fisso al comune per il quale i genitori avevano elargito una mazzetta di € 15.000, sudando sette camicie, per augurare a loro figlio una vita serena senza problemi di ogni sorta? Nessuno, beh, certo, ovvio! E tanto meno il geometra Bettini, che ci manca poco che alla fine del film lo facciano pure santo.
Che poi Fabio Volo non è nemmeno malaccio, anche se a volte ha una recitazione troppo enfatica e irreale (se sbraitassi sputacchiando in faccia al mio capo, non so se mi terrebbe ancora lì in ufficio…), resta il fatto che è un film piuttosto banale e l’unico pregio degno di nota è la bellissima colonna sonora scritta dai Negramaro, che sa emozionare ed elevare la mediocre storiella grazie a melodie e a canzoni toccanti.

4½/10

lunedì 10 luglio 2006

"L'amante di Lady Chatterley" di David H. Lawrence

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Leggerlo oggi, ormai abituati alla tv spazzatura e a qualsiasi prodotto editoriale/ cinematografico/ d’informazione scadente, questo libro conserva ancora tutti gli aspetti più scandalosi che indignarono la società inglese del 1926 - anno di pubblicazione del volume.
E’ molto esplicito e diretto nelle parti in cui si narra l’amore fisico tra Connie Chatterley e Mellors, il suo amante, guardiacaccia assunto dal nobile marito di Connie.
Nonostante questo però resta sempre in primo piano il sentimento, la passione mentale e non solo quella fisica tra i due, nelle dettagliate descrizioni sessuali si percepisce anche il vero amore che ha segnato fin da subito la loro relazione.
Anche se a volte si eccede nella volgarità fine a se stessa: non è raro, nel seguire le lunghe conversazioni tra i due amanti, rimanere basiti di fronte a epiteti - secondo me - tutt’altro che romantici che riducono il loro amore solo ad un’attrazione sessuale.
Ma il loro rapporto è fatto anche di questi impulsi “animali”, e lo si nota soprattutto dal forte richiamo che hanno entrambi verso la natura, la libertà dei sensi e mentale; e si discostano molto da tutti gli altri personaggi del romanzo legati al consumismo, al cambiamento sociale che è in atto dovuto alla Prima Guerra Mondiale terminata da pochi anni, ai soldi, alla mercificazione dei sentimenti e alla totale sterilità dei rapporti verso il prossimo.
E la sterilità non è solo psichica, ma anche reale: Sir Chatterley non può avere figli e delega l’incombenza alla moglie, che avrà così l’onere di “assoldare” un uomo che assicuri alla dinastia dei Chatterley un erede. Sir Chatterley prevarica ogni tipo di emotività mettendo in primo piano il futuro economico della famiglia. Squallido, vero?
L’amante di Lady Chatterley” non è solo un romanzo “erotico”, ma una denuncia verso il consumismo che stava già dilagando nella società inglese - ed europea - dell’epoca; ma per fortuna le ultime parole del libro sono di speranza, seppur enunciate da Sir Thomas a Lady Jane… [Sir Thomas è il nomignolo attribuito dai due amanti al pene, mentre Lady Jane è la vagina… si ritorna così al discorso sugli impulsi animali, in questo modo la dichiarazione di speranza e amore non viene fatta “col cuore”, ma con la parte più bassa dell’essere umano].

8/10

sabato 8 luglio 2006

"Ultimi raggi di luna - Collection" n. 2-3

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Dopo un promettente inizio, la serie ha cominciato a peggiorare seriamente dalla metà del secondo numero fino al sospirato terzo e ultimo volume.
Innanzitutto i lunghissimi dialoghi: ma quanto parlano i personaggi??? Cara Ai Yazawa, forse non hai capito la differenza tra manga/fumetto e romanzo! E’ nel secondo che si deve valorizzare il parlato e le descrizioni, nel primo - di tua competenza - a svolgere tutto ciò ci pensano, per il 60% del lavoro, i disegni.
Inoltre durante questi divertentissimi papiri da leggere, i personaggi nel clou del discorso urlano, sì, URLANO, ad esempio:

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il ragazzino sbraita “Proviamo a controllare nei negozi più costosi, quelli che trattano soprattutto il materiale d’importazione!”, la bambina invece medita estasiata… e capita sempre così, uno urla e gli altri stanno lì come se niente fosse (la vignetta va letta da destra verso sinistra).
La storia, singolare e ricca di colpi di scena, sarebbe stata decisamente avvincente se solo la si sarebbe ridotta di un bel po’, e a dilatare questa sensazione è colpa anche dei noiosissimi dialoghi.
Per non parlare della comicità fuori luogo che scatena nei personaggi, soprattutto nei momenti di maggiore intensità, delle battute davvero penose.
E’ indubbio comunque che la Yazawa riesce a esprimere con le sue matite ogni tipo di sensazione, e soprattutto nelle scene in cui ci si trova in una dimensione parallela (una sorta di purgatorio) si ha proprio l’impressione di essere circondati da un’atmosfera ovattata, dal silenzio quasi opprimente.
Il pregio maggiore è dato quindi dai bellissimi disegni, la storia è discreta ma schiacciata da soliloqui interminabili.

voto complessivo: 6/10

venerdì 7 luglio 2006

"Silent Hill" di Christophe Gans (2006)

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Ieri sera avrei dovuto vedere “La spina del diavolo”, film prodotto addirittura da Almodóvar, ma era stato eliminato dalla programmazione senza spiegazioni, così ho ripiegato su quest’altro film tratto da un videogioco, e scettica come sono riguardo ai film horror, di solito chiuderei qui il mio commento, invece
Consiglierei prima di tutto a chi non conosce il giochino per play-station di non leggere assolutamente la trama del film, né di guardare i trailer: entrambi, visti e letti stamattina, tolgono la maggior parte della suspance e dell’inquietudine che si ha nel corso del film, il trailer poi condensa in pochi minuti le scene più spaventose e salienti. Per quanto riguarda chi già seguiva il videogioco, da quanto ho potuto capire, rimarrà un po’ deluso.
I primi cinque minuti introduttivi mi avevano però già fatto ripensare ai soldi spesi per il biglietto: Rose e Christopher non sanno darsi pace per il sonnambulismo della figlioletta adottata di nome Sharon (Zampetti), che nel cuore della notte si fa lunghe passeggiate e che, come E.T., urla “Casa! Casa! Casa!”, riferendosi a un misterioso paese dal nome Silent Hill; in più il paparino - toh, guarda, è Boromir! - delega l’incombente ricerca della figlia sonnambula alla moglie, restandosene sotto il portico a dire “Guarda là, guarda lì!”.
Ma nel momento in cui Rose e Sharon Zampetti raggiungono Silent Hill, di nascosto da Boromir in cerca di una soluzione agli stati di trans della bambina, beh… c’è da aver paura per davvero! Altro che “They” e “Cabin Fever”, quei due sono delle cacchette!
Fotografia spettacolare e inquietante; mentre di solito le inquadrature vengono fatte in soggettiva o semi-soggettiva, in questo caso i momenti clou vengono spesso ripresi solo tenendo fissa la macchina da presa sulla protagonista, tattica perfetta per far rimanere col fiato sospeso lo spettatore che non sa cosa aspettarsi di vedere oltre gli occhi del personaggio; quello che a volte non riesce a fare la computer-grafica e il trucco (i mostri in alcuni casi sono un po’ rigidi) e l’insistere sul riprendere le comparse apparentemente innocue sempre di spalle - stratagemma che, va bene per le prime volte, ma alla ventesima si sa già che quando queste si volteranno avranno delle escrescenze in faccia, del sangue che cola, delle menomazioni fisiche, ecc… - viene svolto da una scenografia e un’ambientazione che con la loro (a prima vista) statica calma sono molto più angoscianti di tutto quello che capita nell’oscurità di Silent Hill.
Ovviamente anche nel buio ne succedono delle belle (e a questo proposito mi terrò alla larga per un po’ dai bambini…) ma come già detto prima i trucchi grafici non sono sempre ai massimi livelli; è soprattutto l’atmosfera silenziosa, candida, che si crea fin da subito a spaventare di più, perché è proprio in quella distensione dei sensi che si celano molti segreti e quando la sirena comincia ad ululare per la terza volta sai già che cosa arriverà. Inoltre la città deserta, la polvere, la fuliggine mi ricordano la spettrale Chernobyl vista nei documentari e nei servizi fotografici, quelle schiere di banchi nella scuola deserta, la bicicletta abbandonata sul ciglio della strada, i fiori ormai secchi in un vaso…
Il finale è un po’ buttato lì, il solito espediente per lasciare ogni soluzione aperta in previsione di un sequel, e dato che di “Silent Hill” in formato videogioco ne sono già usciti quattro…
Ottime le interpretazioni dei personaggi principali e secondari, e poi, dove la trovate una Sharon Zampetti con quel ghigno a soli dodici anni?

9/10

mercoledì 5 luglio 2006

"H2Odio" di Alex Infascelli (2006)

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Alex Infascelli ha scavalcato i cinema ed è andato direttamente dal cartolaio con il suo ultimo film già in versione dvd.
Non vorrei essere nei panni di chi, acquistato giornale+dvd in edicola due mesi fa, si è visto passare il film zitto zitto su Mtv in seconda serata domenica scorsa... Che fregatura!
Il suddetto film sconfina in più generi e alla fine sembra essere più un horror psicologico, dove al narrato (un po’ confusionario) si alternano sequenze oniriche scaturite dalla torbida mente della sanguinaria protagonista, approdata su di un’isola deserta (“Lost”?), di proprietà della famiglia, con quattro amiche per mettere in atto un fantomatico digiuno a base d’acqua e legnetti di liquirizia (mi è venuto in mente un episodio del telefilm di Pippi Calzelunghe, durante il quale Pippi si perde in un bosco al di là dal fiume e per cercare di costruirsi una zattera tenta di emulare i castori rosicchiando la corteccia di un albero…).
Ritmo lento e noiosetto per la prima parte, dalla metà in poi il tutto si fa decisamente più movimentato e il largo uso di tecniche “carpite” dai video-clip e dalla pubblicità diventa più massiccio e aiuta così il ritmo altalenante.
Queste tecniche però non si discostano molto dal “già visto” televisivo, e più che un film innovativo ci si trova così di fronte al solito filmetto da “Horror night” che Mtv ci propina tutti i fine settimana, con i più improbabili titoli: Xiahyutao 1, Xiahyutao 2, Xiahyutao 3 e Xiahyutao il ritorno.
Interessante però la sequenza in cui una delle cinque ragazze tenta di scrivere “Help” sulla parete della piscina, ma viene interrotta lasciando ultimate solo le lettere “Hel”. Se ci aggiungete un’altra L cosa vien fuori…? Sagace, vero?
La musica è costante, lenta, ipnotica e penso sia la parte meglio riuscita del film, rende tangibile l’inquietudine delle protagoniste e mi ricorda la colonna sonora de “My summer of love”, perché è utilizzata nello stesso modo: dietro un’apparente calma ed equilibrio (segnato dal ritmo regolare della musica), si celano molti segreti che sfociano nell’alterazione mentale (sottolineata anch’essa dallo stesso identico motivo musicale che viene interpretato e percepito dallo spettatore in maniera diversa solo in base ai comportamenti delle protagoniste).
Ma ho già accennato alla trama confusionaria, che è un’altra pecca del film: i dialoghi sono a volte difficili da capire e ricordano le frasine new-age dei libri di Maxence Fermine (du palle…); molti degli scatti maniaco-depressivi della protagonista sono perfettamente comprensibili solo dopo l’epilogo che scorre in sovrimpressione, epilogo che sminuisce tutto il film, sul truculento andante fino a quel momento, e lo riduce ad una sorta di “documentario” dove si cerca di spaventare gli spettatori con un’insinuazione alquanto inquietante.
E' solo un film “piacevole” con il quale passare nemmeno due ore di una serata casalinga; d’altronde cosa ci si può aspettare da una pellicola annoverata fra il palinsesto di Mtv?
Oh ragazzi, mi prude una chiappa... non è che…

6/10

martedì 4 luglio 2006

"Hanayori Dango" n. 48




Le mie aspettative sul finale di questo manga si sono rivelate per fortuna infondate; dopo gli ultimi numeri decisamente poco coinvolgenti, l’epilogo della storia è strutturato di nuovo come i primissimi numeri, e tralascia quindi episodi di scarsa importanza (vedi: ritorni a iosa di vecchi personaggi) e favorisce le descrizioni puramente psicologiche dei protagonisti (vedi: narrazione intercalata a quadretti esplicativi dei pensieri di Tsukushi).
Un ottimo finale che, nonostante lasci il lettore un poco insoddisfatto - sono esattamente passati quattro anni dal primo numero, e sinceramente mi aspettavo una conclusione più “concreta” [chi l’ha già letto capirà cosa intendo…] - è molto più realistico del solito e tralascia quel pizzico di surreale/grottesco che ha da sempre segnato questa opera, escludendo inoltre a priori anticipazioni sul futuro dei protagonisti principali che sarebbero sembrate altrimenti troppo forzate.
Ho ripreso i primi numeri, ed è interessante vedere come il tratto della Kamio, da acerbo e poco curato (per non dire bruttino) quale era all’inizio, si sia in dieci anni (il tempo reale di stesura del manga in Giappone) trasformato drasticamente perdendo quella "plasticità" che lo caratterizzava all'inizio..
Sì, è stato davvero un bel manga.
Fine…

voto complessivo: 7½/10

lunedì 3 luglio 2006

"La ragazza della porta accanto" di Luke Greenfield (2004)

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Capita in una noiosa domenica pomeriggio di fare zapping davanti al televisore, ed è proprio così che ho visto scorrere i titoli di testa di questo film che racchiude tutti gli stereotipi sull’ultimo anno scolastico prima del debutto al college (secondo gli americani).
Quindi via con: foto di gruppo goliardiche, scorribande in macchina, le dediche sull’annuario, il rapporto con i professori e con i genitori, le feste con gli amici, le ragazze e i passatempi dei nerd (di cui il protagonista fa parte).
Ci si diverte un po’ a vedere questo film, ma le risate sono poche e comunque non hanno troppe pretese (in film di questo tipo quante volte non avete visto la classica scena con i culi che fanno ciao-ciao appiccicati ai finestrini della macchina in corsa?); inoltre si casca sul modello “vicinona”: la “vicinona” è quella donna/ragazza che la sa più lunga del - in questo caso - nerd, al quale farà conoscere le gioie del sesso con la scusa di fargli imparare a vivere e a conoscere se stesso. Ma la “vicinona”, che è una porno-star sotto mentite spoglie, avrà qualcosa da imparare anche dal nerd di turno: capirà che fare film porno non le si addice perché in fondo è una brava ragazza.
Da quello che poteva essere un film alla “Animal House”, si precipita in un tripudio di buoni sentimenti dove si denuncia anche lo squallore della vita delle porno-star.
Citando una battuta del film: mi spiace, ma “il gioco NON vale la candela”.

5/10