sabato 30 settembre 2006

"Il profumo" di Patrick Süskind



“Mhff…” è quello che ho pensato quando ho finito di leggere il libro.
Le vicende di Jean-Baptiste Grenouille oscillano tra le favole per bambini e i romanzi truculenti con un tocco di morbosità sessuale portata all’eccesso nel finale.
La prima parte del libro è, se non avvincente, molto accattivante per quella serie di comportamenti bizzarri del protagonista che seguiamo dal momento della nascita (da voltastomaco!) fino all’adolescenza, in cui le sue abitudini cominciano a diventare inquietanti.
L’autore dimostra, senza dubbio, di avere una notevole fantasia, ma dalla metà della prima parte, la narrazione rallenta e giri le pagine sonnecchiando, idem per la terza parte.
Poi la storia si focalizza sullo strano obiettivo che Grenouille si è imposto (non dico nulla di più…) prendendo una piega da libro giallo, sempre con occhio di riguardo ai topoi favolistici che rendono molto infantile il racconto.
A una ventina di pagine dalla fine del libro il lettore ha già capito quale sarà il finale, la rivelazione del narratore è quindi inutile e ha aumentato l’impressione negativa che mi ero fatta su questa parte del romanzo: non molto credibile e con una soluzione troppo facile e affrettata del giallo, se si considera che è il fulcro di tutto il romanzo.
Si arriva così al capitolo 49 e successiva quarta e ultima parte, in cui si trova un’orgia cittadina e un “pranzetto” sanguinario.
Un finale inspiegabile che mi ha lasciata perplessa per quell’insistenza su particolari erotici e disumani, davvero osceno e di una stupidità enorme.
In sostanza è un libro insipido per la sua quasi totalità, si salvano solo i primi capitoli della prima parte, e non capisco come sia potuto diventare nel 1985 (anno di pubblicazione) un vero e proprio caso editoriale.

4/10

P. S.: aggiungo che ha l’incipit più brutto che abbia mai letto.

venerdì 29 settembre 2006

"Brad Barron" n. 17

Questo è il penultimo numero che avrebbe dovuto dare il via a una serie di colpi di scena mozzafiatanti.
Invece non succede praticamente nulla fino a metà albo, e da lì poi mi è sembrato di vedere “Independence Day”: armature volanti (sotto la quale Brad indossa ancora il suo giubbottino di pelo di topo), astronavi (beh, quelle ovvio che ci siano), carri armati, bombe, ragni succhia cervello, i compagni che si sacrificano per te, ecc… storia troppo “pompata” per un iniziale calma piatta, come se Faraci, per recuperare, abbia caricato al massimo il finale.
I disegni di Max Avogadro non mi sono piaciuti neanche un po’, Brad Barron non sembra neanche lui (soprattutto nel flash-back) e in alcune tavole si ha proprio l’impressione di vedere un miscuglio di segni, righe, righette, ombre e sfumature che appesantiscono troppo il disegno e, se tolte e lasciato l’essenziale, ti accorgi che la vignetta non ha proprio nulla di sensazionale e maturo.
Vari gli errori: i capelli della ragazza di pag. 56-60, si allungano e si accorciano inspiegabilmente; il soldato alla sinistra del colonnello nelle pag. 22-23, nella prima vignetta ha i capelli neri, nelle successive li ha invece biondi (!); gli alieni stramazzati al suolo nella sequenza finale scompaiono da terra dopo esser stati uccisi...
La copertina, oltre a essere bruttina - con Brad che stringe la manina al lupo-sorcio-mannaro - non c’entra niente con la storia di questo numero, o meglio, il lupo-sorcio-mannaro c’è, ma non sarà Brad ad averci a che fare direttamente; questo cambiamento, proprio nel penultimo numero, è inusuale, dato che per sedici numeri le copertine sono sempre andate di pari passo con la trama.
Di nuovo Brad si chiede come i Morb abbiano fatto a capire che ha una moglie e una figlia… ma sei duro, eh?!? Hai scritto una marea di trattati sull’esistenza di vita aliena, e non ci sei ancora arrivato che è grazie alla telepatia???
Poi mi è sorto un dubbio: i Morb sono sbarcati negli Stati Uniti, in teoria nessuno sa se anche il resto del mondo sia stato da loro invaso; le radiocomunicazioni sono interrotte, ma tutte le nazioni del mondo che hanno contatti con l’America dove sono finite? A nessuno è venuto in mente che, data l’interruzione delle comunicazioni in tutto lo Stato, sia successo qualcosa?

mercoledì 27 settembre 2006

"Happy mania" n. 5

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Dopo una repentina maturazione psicologica, in Shigeta sono riapparsi tutti i cliché del personaggio: sesso con chi capita, scervellamenti di ogni tipo (dalla mancanza di soldi a quella di un uomo al proprio fianco) e acidità cronica nei confronti del genere umano.
E’ un circolo vizioso.
Sono rimasta un tantino perplessa nel leggere la prima vignetta di pagina 51 e le seguenti: Shigeta è ospite di un suo vecchio flirt, lui le sta preparando il futon per la notte e tra i due avviene il seguente dialogo:
Lui: “E’ un sacco che non facciamo sesso insieme!”. (così, con nonchalance, come se stesse dicendo “Mi andrebbe di andare a funghi domani mattina!”)
Lei: “Eh?”.
Lui: “Ma quale eh?”.
Lei. “Insomma…”. (Beh, si capisce, è imbarazzata dalla sfacciataggine del padrone di casa!)
Lui: “Ma quale insomma?!”.
Giri pagina e i due son lì che consumano allegramente.

…Pausa di riflessione…

C’è qualcosa che non quadra.
Prima lei, giustamente, tituba, e poi gliela dà?
Mmmh… proseguiamo.
Ecco che a pagina 53 ci viene svelato il motivo della sua incertezza: Shigeta faceva sempre finta di avere un orgasmo con quel ragazzo.
Aaaaaaaaaah, adesso è tutto chiaro! Non voleva, per l’ennesima volta, rimanere a bocca asciutta.
Certo, mica per altro!
Beh, sì.
Infatti.
Già.

Stendiamo un velo pietoso.

I disegni sono leggermente più curati, meno frettolosi, ma gli occhi dei personaggi ora risultano essere, per la maggior parte, cerchiati di nero, il che li fa sembrare dei maniaci in preda a delle turbe psichiche.
La storia, come già detto, sembra essere tornata al punto di partenza, e ho una mezza impressione che il manga oscillerà in questo modo per tutti i prossimi numeri.
In questo volume ci sono dei cambiamenti sostanziali, ma la protagonista è regredita e le sue avventure cominciano a essere, se non ripetitive, almeno molto prevedibili; per questo motivo l’ironia, che caratterizzava i primi numeri, ora è scemata: si sa già cosa succederà.

P. S.: bella la copertina, soprattutto per lo sfondo sempre a "tinta unita".

domenica 24 settembre 2006

"Cuori meccanici" di Andrea Mancinelli

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Rispetto a “Solitudini imperfette”, il secondo libro di Andrea Mancinelli l’ho digerito meglio; ciò non toglie però che sia, per certi versi, la copia (meglio riuscita) del precedente romanzo.
Come infatti riporta la seconda di copertina, “il giovane protagonista appare simile a tanti altri”, schiacciato da una società in corsa, dove alla base c’è la pura mercificazione dei rapporti sia lavorativi che amorosi, la routine; ognuno cerca il proprio tornaconto, non ti puoi più fidare di nessuno e bla bla bla bla.
Rispetto però a “Solitudini imperfette”, questo secondo romanzo mi è sembrato meno melodrammatico e più semplice, la narrazione non cerca di sottolineare la deprimente situazione in cui si trova il protagonista, ma piuttosto di seguire i ragionamenti e le scelte che porteranno il giovane a cambiare strada.
Poi però la storia si perde in elucubrazioni ammorbanti e incomprensibili, se non una volta letto il finale, e il protagonista annoia il lettore disquisendo sull’ipotetica esistenza di un virus che potrebbe distruggere i computer di tutto il mondo e utilizzando, in generale e non solo in quei brani, termini come: shooting, downsizing, timetable, routine di picking, brief, legge di Say, benchmark, decruting, ecc… che mi hanno dato l’impressione di essere lì per far sembrare il racconto “molto frizzante e very cool”…
Mi è piaciuto il finale però, esente da lacrimevoli conclusioni, poche righe che evidenziano un malessere che, se nel primo libro era esclusivamente sociale, qui risulta provenire dell’errato rapportarsi con se stessi e che, quindi, non è solo riconducibile alla deleteria società odierna.
Anche se il mio giudizio non è del tutto positivo e rasenta solamente la sufficienza [e vista anche la diatriba con l’autore in persona, che mi aveva scritto infastidito dalla mia recensione del suo primo libro], questo libro ve lo consiglio comunque, dai... perché in fondo - grazie al solo finale, però! - non è il solito romanzo generazionale.

6/10

"Un bicchiere di rabbia" di Aluizio Abranches (1999) | "Pirati dei Caraibi: la maledizione del forziere fantasma" di Gore Verbinski (2006)

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Un uomo e una donna, per la breve durata del film, se non sono impegnati a fare sesso, litigano e si picchiano urlandosi contro reciproche accuse recitate in modo teatrale ed aulico, mettendo in evidenza le differenze che dividono gli uomini e le donne.
Poteva essere interessante, se non fosse che i due per metà film si attorcigliano e sudano su un letto, e quando, ricompostisi nei loro ruoli, Lui si incazza come una iena per aver trovato un formicaio in giardino - che, dopo averci rimuginato sopra, ho collegato al simbolismo surrealista dove le formiche sono simbolo di perversione sessuale [guardate ad esempio “Un chien andalou” di Luis Boñuel] - il lungo botta e risposta tra Lui e Lei mi è sembrato ridicolo: due pazzi, come poi diranno gli inservienti che lavorano nella casa di Lui, che sbraitano parlando di filosofia, rivendicazione del genere femminile su quello maschile e dello sfacelo dell’umanità, tutto condito da una recitazione enfatica e poco naturale.
C’è di meglio.

Il film è tratto dall’omonimo romanzo di Raduan Nassar.

4/10


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Penultimo capitolo della trilogia dei pirati esotici che si concluderà questa primavera con “At world’s end”.
L’ho trovato noioso e con una trama a tratti incomprensibile che poteva essere ridotta di un bel po’, visto che non fa altro che accumulare fatti e gag rocambolesche per poi lasciare tutto in sospeso.
Mi ha dato l’impressione di un capitolo aggiuntivo e raffazzonato alla bel e meglio per permettere di allungare la saga di un episodio e aumentare la curiosità degli spettatori, che rimangono a bocca asciutta.
L’ultima sequenza, poi, non è degna del primo episodio: ricalcata sui finali dei telefilm di ultima generazione (vedi: “Lost”), ma che, se ben accetti per una serie televisiva, in un film proiettato sul grande schermo fanno pensare subito a un prodotto commerciale e chiaramente creato per fare più soldi.
Data la quantità di carne al fuoco, i personaggi che dovevano essere i principali non hanno il giusto risalto nella vicenda - soprattutto Elizabeth (Keira Knightley), di cui ci si ricorda solo nella sequenza finale - e l’unico che si salva è Jack Sparrow interpretato da un bravissimo Johnny Depp.
Per il resto, ammetto di essermi appisolata due o tre volte nel corso della proiezione…

6/10

P. S.: Vi consiglio di restare seduti fino alla fine dei titoli di coda, vi aspetta l’ormai usuale scenetta aggiuntiva.


giovedì 21 settembre 2006

"Cristalli sognanti" di Theodore Sturgeon

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Conoscevo solo di fama Sturgeon, perché associato alla letteratura fantascientifica, ma “Cristalli sognanti” non parla solamente di attacchi alieni ed esseri mostruosi, è piuttosto una delicata metafora in cui viene messa in discussione l’ipocrisia dell’uomo nei confronti di chi ritiene “diverso”.
Nel libro i diversi sono i componenti di una carovana circense, i “fenomeni da baraccone” che fino a pochi decenni fa attiravano molti spettatori; attraverso le vicende del protagonista, Horty, accolto nella carovana, il lettore può capire che cosa significhi essere considerato inferiore, e che in realtà quei “mostri” cercano solo di essere accolti e considerati come chiunque altro, perché sono più umani loro di qualsiasi essere ritenuto normale: “L’umanità è un concetto vicino, incredibilmente vicino agli esseri anormali, che anelano a confondersi con gli altri, che anelano ad essere come gli altri (…) che tendono avidamente verso quell’idea di uguaglianza, di partecipazione al tutto”.
Secondo me, quindi, è riduttivo inserire questo romanzo nel solo genere fantascientifico, perché ha numerose chiavi di lettura, molto profonde e attuali; perché narra anche di filosofia e del concetto di umanità; perché non ha come protagonisti i soliti alieni con le astronavi ma uomini che affrontano la loro diversità con orgoglio e ci insegnano a superare le apparenze e ad andare oltre.
Forse la parte finale del racconto è un po’ troppo affrettata e poco approfondita per quanto riguarda la soluzione dei rapporti fra i vari personaggi - fin lì molto ricchi psicologicamente e tormentati quanto basta per poter avere di che parlarne ancora per molto - ma riesce comunque a sottolineare per un’ultima volta il suo vero messaggio.

8/10

domenica 17 settembre 2006

"Va' dove ti porta il cuore" di Susanna Tamaro | "La cittadella" di Archibald Joseph Cronin

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Da tempo il libro della Tamaro vegetava nel punto più basso e polveroso della libreria, e qualche giorno fa, così tanto per fare, mi è venuta voglia di dargli un’occhiata; ricordavo il film diretto da Cristina Comencini, mi era piaciuto e pensavo di ritrovare lo stesso piacere nel libro originale.
La storia della nonnina che scrive alla nipote lontana, è però molto più profonda e toccante sul grande schermo, le 187 pagine da leggere mi hanno provocato solo una noia altalenante.
Sicuramente le parti in cui nonna Olga ritorna col pensiero alla giovinezza e ai primi anni di matrimonio sono molto belle, ma lo stile in cui sono scritte ricorda troppo i libri sentimentali alla Liala senza neanche troppa introspezione psicologica, che era proprio lì che doveva andare, e che invece la Tamaro usa in maniera spropositata e ammorbante nei brani in cui ritorna più volte sugli stessi argomenti (che a metà libro son belli che esauriti), vedi: il rapporto con la figlia, il rapporto con la nipote, il rapporto col marito e con l’amante.
In tutti questi rapporti la costante è sempre la stessa: la pazzia nelle più svariate forme, sopraggiunta con la vecchiaia oppure presente dalla nascita, dovuta a uno stato di depressione o affibbiata dai compaesani pettegoli.
Ma perché inserire questo stato di malessere in una storia già abbastanza carica di concetti e analisi? La malattia non fa altro che appesantire le già lunghe e replicate analisi psicologiche, che sono l’altra costante del libro insieme alle tare mentali.
Così, al termine della lettura, lo sbandierato messaggio “va’ dove ti porta il cuore” mi è sembrato solo il culmine della mielosità, e l’intero libro solo un prodotto sopravvalutato e scritto in maniera artificiosa per nascondere le carenze che l’autrice ha, e mi riferisco agli scarsi argomenti trattati in quasi 200 pagine e le continue ripetizioni.
Consiglio la visione del film, molto più coinvolgente e ben diretto [da notare che la trama è leggermente modificata e con un finale che, a differenza di quello originale, non lascia la storia sospesa verso un epilogo lontano].

4/10

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I libri di Cronin sono un esempio per affrontare la vita di tutti i giorni, leggendoli si entra in una quotidianità fatta di sacrifici e dolore, rischiarata però da una (purtroppo) fuggevole gioia; dalle storie nate dalla penna di questo autore, si possono trarre molti consigli, soprattutto grazie ad una analisi molto genuina senza troppa filosofia.
Ne “La cittadella”, il Dottor Manson è alle prese con argomenti che, nel 1937, denunciavano con sorpresa la malasanità, il dio denaro, l’arrivismo e la cattiveria umana; oggi tutto questo è ancora attuale ed è brutto ammetterlo, almeno però si spera ci siano ancora in circolazione degli uomini con la stessa forza d’animo ed entusiasmo del Dottor Manson, sperando così di finire nelle giuste mani.
Quello che mi ha fatto da subito innamorare dei libri di Cronin è tutto quel miscuglio di sentimenti che spingono i personaggi non corrotti verso la costruzione di una società più umana, dove però il sentimentalismo è assente e non c’è traccia di moralismi.
Anche nel raccontare avvenimenti carichi di tragicità e disgrazia, Cronin non dà l’impressione di voler indurre il lettore verso il pietismo e la lacrima facile; tutto viene raccontato con occhio critico, quasi con distacco, e nelle analisi psicologiche quello che traspare è solo un osservazione schietta e davvero realistica dei sentimenti del Dottor Manson e di tutti gli altri personaggi che lo affiancano, e pensi che “così va il mondo”, non c’è niente di forzato.
Leggete ad esempio il capitolo in cui Manson salva un neonato che si pensava nato morto, oppure quello in cui è costretto ad amputare il braccio di un minatore rimasto schiacciato sotto un cumulo di macerie; mentre li leggi le pagine scorrono senza che tu abbia il pericoloso sospetto di trovarti di fronte a un pietismo affettato, ma le emozioni sono talmente forti e vive che io (ebbene sì…) ho pianto come una fontana; Cronin però non ti induce a farlo, ti mostra solamente la vita com’è.
Entrando nel mondo de “La cittadella” patteggi per il protagonista e per i suoi amici che hanno (secondo la morale comune) l’insano proposito di cambiare la società e salvarla dalle ingiustizie, perché sono veri e li senti vicini; quando però, a metà libro, Manson vende la propria anima a quella società corrotta e dominata dal denaro, ne rimani deluso; però Manson è un uomo come tanti altri e capita che i propri ideali, come a chiunque, scappino offuscati da altri più materiali.
Un altro sentimento importante è l’amore, in questo romanzo è rappresentato dal legame che unisce Manson a sua moglie Cristina, un’unione che dà vita alle pagine, secondo me, più intense e (perché no…) erotiche che ho fin qui lette, narrate con una semplicità strabiliante, senza malizia, e quello che ne emerge è la vera passione e il vero amore eterno.
Ma, nonostante l’amore, non sempre i finali dei libri di Cronin vengono rischiarati da un happy-ending, perché ci sarà sempre qualcosa a cui i protagonisti dovranno rinunciare, esattamente come nella vita reale, la quale ti riserva svariate soluzioni; queste però, l’ho imparato leggendo i libri di Cronin, non sono dovute dal destino, ma da come l’uomo agisce e conduce la propria esistenza.
Tutto questo è “La cittadella”, Archibad Joseph Cronin e i suoi romanzi.

9½/10

sabato 9 settembre 2006

"Brad Barron" n. 16

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“Lui [l’Unico, l’essere che comanda i Morb, n.d.r.] può guardare il futuro, anche se gli costa più sforzo e riesce a scorgere soltanto frammenti - Si sofferma su un’immagine, la isola, la esamina - E’ l’immagine di un nemico, lo vede di fronte a sé [vi è ritratto Brad Barron, n.d.r.]”.
Questo è uno stralcio delle didascalie che accompagnano le prime tavole dell’ultimo numero di “Brad Barron”, e subito ritornano i soliti quesiti: perché i Morb ritengono che Brad Barron sia un’entità così pericolosa, ma così pericolosa, da doverlo cercare in lungo e in largo per ucciderlo? I Morb si sono fatti scappare numerosi prigionieri, che hanno anche accompagnato Brad in diverse avventure, ma, chissà perché, di quelli loro non se ne curano, anzi, vivono e agiscono esclusivamente per catturare il nostro eroe, so’ proprio fissati con Brad. Ma perché?
Da notare che il tempo trascorso dal primo numero è di due anni, e con tutti i mostri, le navicelle, le astronavi, le armi, la telepatia, l’intelligenza (?) più sviluppata degli umani (che sono riusciti a sottomettere nel giro di 24 ore), non sono però ancora riusciti, non dico a rapirlo, ma almeno a capire dove si nasconda e a pedinarlo in previsione di un “arresto” coi fiocchi così da risalire a tutti gli umani che lo hanno aiutato. No, eh? No.
Ma ecco che in questo numero i Morb sembrano aver capito lo stratagemma che porterà Brad dritti-dritti da loro: rapire consorte con annessa progenie.
Ma la mogliettina e la figlia in questi due anni, ‘ndo stavano? Che Brad le ha cercate dappertutto!
Sottolineo poi che questo numero ha dato il via a una trilogia che concluderà col numero 18 la serie, ma, di solito, un numero che apre la parte conclusiva di una saga, dovrebbe cominciare a portare la storia verso il finale, ma anche in questo numero non succede proprio nulla: già sapevamo che la famiglia di Brad era stata presa in ostaggio dagli alieni, e allora perché Brad si ferma a cincischiarsi con dei militari nascosti dentro una montagna (avete presente il rifugio di Batman?) e a uccidere una piattola alta quanto il Pirellone?

lunedì 4 settembre 2006

"Central do Brasil" di Walter Salles (1998)

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Ogni volta che viene trasmesso in tv, è per me sempre un piacere rivedere questo film.
All’apparenza sembra un film come tanti, dove seguiamo una donna sola e un bambino, rimasto improvvisamente orfano di madre, vagare insieme per i paesaggi desolati del Brasile in cerca della famiglia paterna del ragazzino.
Se ne vedono tanti di film con una trama simile, dove il viaggio on the road porterà i protagonisti a crescere spiritualmente.
“Central do Brasil” è però da vedere con più attenzione, perché non considerato adeguatamente agli Oscar del 1999 - dove era candidato per “Miglior attrice” e “Miglior film straniero”, e dove venne sorpassato (secondo me a torto) rispettivamente dalla molliccia ed eterea Gwyneth Paltrow nei panni di una fantomatica musa ispiratrice di Shakespeare ne “Shakespeare in love” (ma vi rendete conto???) e da “La vita è bella” di Benigni - e perché nella sua delicatezza questo film racchiude molti insegnamenti.
La protagonista femminile, Dora, è interpretata da Fernanda Montenegro, che dire bravissima è poco, ad ogni nuova visione della pellicola si rimane colpiti dalle capacità recitative di questa attrice, e non si ha mai la sensazione di “già visto”, non ti trovi mai a pensare che sai già come andrà a finire quella sequenza, che sai già cosa dirà lei e che espressione avrà, ma rimani avvolto da tutte quelle sensazioni di felicità, commozione e dolore come se fosse la prima volta.
Vero è però che il regista cerca spesso di “aiutare” le sequenze cariche di emotività con inquadrature costruite appositamente per enfatizzarne la sensibilità, e penso a: Dora che piange dietro un vetro che ne nasconde il viso; o ai panni sbattuti dal vento, davanti ai quali il piccolo Josué sprofonda in una commovente tristezza dopo una dolorosa rivelazione; Dora che rincorre Josué attraverso una moltitudine di fedeli in processione.
Sono però piccoli accorgimenti che comunque non eccedono nel melodrammatico, nella telenovela, perché tutto il film è sorretto dalla semplicità, sia per la trama piuttosto comune che per la tecnica compositiva.
Ma è proprio questa semplicità che rende il film bellissimo, commovente, come semplici e comuni sono le lettere che Dora scrive sotto dettatura di numerosi analfabeti, parole di vita quotidiana: una giovane donna che scrive al fidanzato, un uomo lontano da casa, gente che affida la propria vita alla penna di Dora e che crea, forse, la sequenza più struggente di tutto il film, e che riassume quello che il lontano Brasile è, per chi è abituato a vivere in un altro mondo, in tutti i sensi, davvero lontano.
Perché alla fine, il viaggio di Dora e Josué è anche il pretesto per mostrare le condizioni in cui la gente vive in Brasile.

9½/10