mercoledì 31 maggio 2006

"Il codice da Vinci" di Dan Brown


Ho letto il libro di Brown solo in previsione di recarmi al cinema per vedere il film omonimo, dato che in linea di massima preferisco avvicinarmi ad un film tratto da un romanzo solo dopo aver letto quest’ultimo.
Non riesco però a capire cosa ci sia nel libro di così scandaloso e, fino a quel momento, ignoto tanto da far indignare la Chiesa…
I fatti storici e le analisi pittoriche fatte sui quadri di Leonardo, riportate nel racconto, non erano mica notizie già da anni a conoscenza di chiunque si è un poco interessato alla materia? Non erano informazioni contenute in moltissimi libri scritti prima di quello di Brown ed editi in tutto il mondo?
Quindi cos’è tutta ‘sta cagnara?
Tanto rumore per nulla.
L’unica trovata geniale di Brown è stata riassumere in poco più di 500 pagine molte informazioni, vere o presunte tali, utili a dare un quadro generale di quello che molti storici e critici hanno scritto prima di lui sull’argomento, nel quale un semplice lettore amatoriale non saprebbe quasi da che parte cominciare (e con l’uscita di questo libro in molti si sono avvicinati alla “materia”), e soprattutto le ha riportate sottoforma di romanzo attraverso un genere, il thriller, apprezzato da un vasto pubblico.
Dan Brown non ha aggiunto nulla di nuovo quindi al panorama scientifico, ma ha trovato il modo di allargare la sua fama (e le sue finanze) grazie a una trovata che ha tutti gli elementi per essere definita commerciale.
Se poi ci si mette anche la Chiesa ad additare come blasfemo il libro, allora miliardi di capre si fionderanno su di esso per provare l’ebbrezza di stare compiendo qualcosa di proibito.
Che poi alla fine, il libro in questione è anche scritto male: interessanti le parti documentate, ma sembrano essere state copiate paro paro da un manuale, noiose e zeppe di contraddizioni le altre, che corrispondono ai 2/4 dell’intero libro e che presentano i tipici colpi di scena da thriller scadente, con annesso fiorir di sentimenti tra i due protagonisti, e il continuo passaggio dei personaggi da un ruolo buono a quello cattivo e viceversa, cosa davvero troppo scontata che mi fa ricordare le favole per bambini.
Il libro quindi non è un capolavoro, ed è un prodotto commerciale che sembra anche sminuire il lavoro fatto da chi di competenza prima di Dan Brown, dato che adesso chiunque abbia letto il suo libro crede di possedere la “chiave di tutto l’arcano” (già me li vedo tutti i turisti al Louvre che rompono i coglioni con il libro in mano).

4/10

sabato 27 maggio 2006

"Volver" di Pedro Almodóvar (2005)


Quest’ultimo film di Almodóvar viene definito un noir, ma lo è solo per la prima metà dove, grazie alla colonna sonora, il susseguirsi degli imprevisti, la struttura delle inquadratura e dei dialoghi, sembra essere costruito come un omaggio al cinema di Alfred Hitchcock e alla musica di Bernard Herrmann (il compositore che scrisse quasi tutte le colonne sonore per i film di Hitchcock).
Dopo questa prima parentesi “nera”, il film si focalizza sui rapporti famigliari delle varie protagoniste, tre generazioni di donne (due sorelle, la figlia di una delle due, e la loro madre morta da tempo) che districano la matassa dei loro problemi che hanno inevitabilmente reso sterili i loro sentimenti materni e fraterni.
In questo modo il film mette in luce l’analisi psicologica delle varie protagoniste, incentrando di conseguenza la fotografia su lunghi primi piani sui volti delle donne, atti a esplicitare, meglio delle parole, i loro pensieri e sensazioni.
Non ci sono però innovazioni e trovate stilistiche di rilievo, dato che, pur essendo l’ultima opera di Almodóvar, questo film non aggiunge niente di nuovo alla sua bravura. Anzi, sembra essere retrocesso allo stile dei suoi primi film, dove si parlava tanto e si scandagliava l’animo di personaggi in gran parte femminili con quel tocco comico e amaro al tempo stesso (qui si parla ad esempio del binomio vita-morte seguendo uno humor nero).
Ciò non vuol dire però che sia un film scarno, perché con il tempo Almodóvar è riuscito a creare uno stile molto personale per ritrarre le sue donne, e questo, aggiunto all’esperienza, apporta a tutto il film una carica emotiva non indifferente, nonostante non ci siano novità né sul piano “strutturale” né tematico.
Uniche ricercatezze: i titoli di testa e i titoli di coda, davvero affascinanti e curiosi, da vedere! Specialmente quelli finali, dato che spesso si tende ad ignorarli perché considerati superflui.
Nulla da criticare sulle interpretazioni delle attrici, dove anche il cast secondario fa una certa figura. Ma parliamo un po’ di Penélope Cruz: lievitata con grasso posticcio, doppiata perfettamente durante la sua interpretazione della canzone “Volver” (tema principale del film cantato in realtà dalla bravissima Estrella Morente, che ha la mia stessa età e direi quindi: ’sti cazzi!), ripresa con insistenza in primo piano con quegli occhi velati di lacrime che sanno esprimere l’impossibile, è il caso di dire che è davvero una brava attrice, anche se in molti dubitano della sua bravura…
E gli uomini? Se fosse per Almodóvar, credo che non li menzionerebbe nemmeno nei suoi film, tanto è attirato dalla figure femminili che sotto le sue mani diventano divine; in questo film gli uomini passano solo di sfuggita e vengono dipinti come la parte pessima del genere umano.
Altro omaggio cinematografico, è quello al cinema di Roberto Rossellini e ad Anna Magnani, due piccioni con una fava ritratti in spezzoni del film “Bellissima”.
Se ne avete la possibilità consiglio di vedere il film in lingua originale, il doppiaggio italiano è un po’ moscio (guardate il trailer originale per farvi un’idea)…

9/10

martedì 23 maggio 2006

Cercasi libro disperatamente

Circa quindici anni fa lessi una serie di romanzi, destinati ad un pubblico adolescente, con protagonista una giovane ragazza (sedici/diciassette anni) che viveva a Parigi agli inizi del Novecento.
La particolarità delle avventure che la vedevano come protagonista era che veniva immancabilmente implicata in indagini di tipo investigativo; in uno dei libri doveva cercare addirittura Houdini.
Il problema è che non mi ricordo né il nome dell’autore, né almeno uno dei titoli dei romanzi… e non so nemmeno come ritrovarli, dato che li prendevo in prestito in biblioteca ed erano ormai talmente vecchi che li avranno sicuramente mandati al macero…
C’è qualcuno che si ricorda di questa serie?
Le copertine ricordo che erano disegnate in stile Liberty e in una si vedeva sullo sfondo l’insegna della metropolitana di Parigi.

"Orlando" di Virginia Woolf


Virginia Woolf ha dedicato questo libro, pubblicato nel 1928, all’amica (e amante) Vita Sackville-West; moltissimi aspetti dell’eroe/eroina Orlando coincidono con l’amante di Virginia Woolf: entrambe al termine del romanzo hanno 36 anni; Vita era bisessuale e così lo è Orlando quando, a metà racconto, subisce una misteriosa metamorfosi sessuale; entrambe sono poetesse e hanno nobili antenati, ecc…
E’ quindi un libro destinato alla persona amata, ma se non si conosce alla perfezione il legame sentimentale tra la scrittrice e Vita, è difficile cogliere ogni sfumatura nascosta.
Io, conoscendo solo vagamente l’aspetto privato delle due scrittrici, ho potuto scovare solo poche notizie “cifrate” durante il racconto, che resta così un romanzo al limite del surreale in cui il protagonista, nel corso di quasi quattrocento anni, invecchia di soli sei anni e agli inizi del XVIII secolo cambia sesso trasformandosi in una donna dal carattere emancipato (anche se un po’ troppo petulante in alcuni episodi…), che ostenta la sua indipendenza nel corso dei secoli sottolineando sempre la relativa inutilità degli uomini, salvo poi cedere le sue grazie a un capitano di vascello…
E’ quindi il ritratto di una femminista che ci viene mostrato di Orlando, lei vive nei secoli e in ogni periodo non cerca minimamente, se non in fuggevoli occasioni, la compagnia maschile ma, anzi, la sostituisce completamente con una frequentazione di tipo femminile.
Nonostante la trama di fondo sia molto curiosa e avvincente, lo stile di scrittura della Woolf tende a diventare prolisso e a fare un uso a volte eccessivo di monologhi interiori, tecnica narrativa che appesantisce un po’ troppo la fluidità della narrazione che risulta altalenante.
Il primo capitolo resta il più affascinante, con il lungo brano dedicato all’inverno tra il 1564 e l’inizio del 1565, che vide il Tamigi gelarsi completamente e sulla cui superficie gelata la Regina d’Inghilterra istituì una vera e propria Fiera sul Ghiaccio.
Interessante anche l’analisi che viene fatta ad ogni secolo attraversato da Orlando, confrontato con quello appena concluso; un’analisi che prende in considerazione ogni aspetto della vita quotidiana alle prese con la modernità e i costumi che variano inesorabilmente in senso negativo.

6½/10

domenica 21 maggio 2006

"Happy Mania" n. 1


Case editrici che ti promettono l’universo e che poi scompaiono nel nulla (la Kabuki Publishing), un’attesa di tre anni e finalmente grazie alla Star Comics il manga di Moyoco Anno è stato pubblicato anche in Italia.
Il primo numero ci presenta la protagonista della serie composta da 11 numeri, una ragazza di ventiquattro anni alle prese con sfighe sentimentali, licenziamenti in tronco e sfortune di tutti i tipi.
Molto divertente, con una trama ricca di colpi di scena e un stile di disegno che mi ricorda vagamente quello di Fuyumi Soryo (e sottolineo vagamente, prima di attirarmi le ire degli amanti in assoluto della Soryo, della quale mi era piaciuto molto “Mars” e “Sole maledetto”); il tratto a prima vista può sembrare frettoloso e poco curato, ma sa comunque rendere l’idea di quello che ai personaggi passa per la testa, le loro emozioni e i loro pensieri, anche se come dettagli espressivi la Anno non è molto accurata come Terry Moore (per fare un esempio)…
Mi ha molto sorpreso però la focalizazzione su gesti quotidiani, che ognuno fa ogni giorno senza darci troppa importanza, come ad esempio lo sfilarsi una calza, il sistemarsi i capelli, fino alla gestualità stessa dei personaggi.
La “felicità maniaca” del titolo indica l’ossessione di Shigeta: trovare un fidanzato, nonostante questo proposito sia ogni volta sul punto di avverarsi, la felicità sentimentale tanto agognata finisce sempre per frantumarsi.
Cosa succederà nei prossimi numeri? Bella domanda, perché le avventure sentimentali e di vita quotidiana di Shigeta sembrano portare verso soluzioni tragicomiche contornate da imprevedibili colpi di scena.
La sfiga, o meglio, la capacità innata (e volontaria) di Shigeta di finire in situazioni negative, sembra non avere fine; mi è bastato solo leggere il primo numero della serie per accorgermi che in 150 pagine la protagonista sembra avere una calamita che l’attira verso ragazzi decisamente poco affidabili, ma lei non se ne accorge, nemmeno al terzo tentativo.
Un’altra caratteristica positiva è che gli argomenti trattati sono molto maturi, e l’esplicitezza di alcune tavole rendono il manga un prodotto destinato ad un pubblico adulto (con un occhio di riguardo per la parte femminile, data la presenza di una protagonista donna), non certo per le quindicenni. Inoltre la protagonista ha 24 anni, elemento che rende ancora di più quest’opera vicina a me e alle mie coetanee.
Infine il formato: cm 14,5x21 permette di avere tavole più grosse del solito per la bellezza di 150 pagine.
Insomma, 3,50 € spesi bene!

sabato 20 maggio 2006

"Creature del cielo" di Peter Jackson (1994)


[Ammetto di essermi persa i primi tre minuti di film…]

Basato su un vero fatto di cronaca degli anni ’50, il film di Peter-Signore degli anelli-Jackson risulta essere già dalle prime battute un po’ sopra le righe, in un misto fra drammaticità, ironia e surreale.
Le due protagoniste, una delle quali interpretata da una giovanissima Kate Winslet, sono due adolescenti alquanto strambe, sia nel comportamento che nel modo in cui passano il tempo libero insieme, speso tra fiabe, poemi cavallereschi e mondi inventati a loro piacimento in cui incontrarsi “virtualmente” quando non possono vedersi di persona.
E’ quindi una visione distorta che del mondo ci viene data seguendo il punto di vista delle due giovani; in questo modo però non si prende nemmeno sul serio tutto ciò che ci viene raccontato, e quando le amiche progettano di uccidere la madre di una di loro, colpevole di ostacolare la loro amicizia (già dichiaratamente lesbica - uno scandalo per gli inizi degli anni ’50…), mai avrei pensato che il film potesse prendere una piega così drammatica e cruda.
E sto parlando degli ultimi dieci minuti di film, perché fino a quel momento nulla faceva presagire un finale così “realistico”, nemmeno l’atteggiamento maniaco-depressivo delle due ragazze perché troppo surreale e contornato da castelli, giardini magici, principesse, banchetti a corte e visioni truculente (l’amica della Winslet, interpretata da Melanie Linskey, immagina spesso di uccidere chi odia aiutata da un suo immaginario paladino medievale munito di spada).
E’ un film che mi ha lasciata un po’ perplessa, cosa che mi era capitata con “Relazioni intime”, film inglese che presenta la stessa struttura: da una base da commedia irreale, gli ultimi cinque minuti di pellicola mostrano un finale tragico e macabro, che si discosta totalmente dal percorso seguito fino a quel punto.
Le interpretazioni di Kate Winslet e Melanie Linskey sono ottime, così come la fotografia, ma quello che lascia un po’ a desiderare è la struttura del film, troppo immaginaria per essere presa sul serio; e gli ultimi minuti - un vero pugno nello stomaco - non bastano a far tornare all’adeguata realtà lo spettatore.
Resta però da sottolineare il lungo lavoro di adattamento dei testi originali dei diari delle due ragazze, usati per scrivere la sceneggiatura, e l’uso di materiale fotografico che è stato proprio “copiato” per ricreare alcune scene del film (la fotografia di classe di Pauline/Melanie Linskey ad esempio).

6/10

venerdì 19 maggio 2006

"Hanayori Dango" n. 46


Mancano solo due numeri alla fine di questo shojo-manga.
Peccato, perché a parte “Maison Ikkoku” di Rumiko Takahashi che resta sempre il mio preferito in assoluto, il manga della Kamio mi ha appassionato (quasi) in egual misura, e - tralasciando le opere della Yazawa, che necessitano un discorso a parte, se solo si decidessero a riprenderne la pubblicazione! - di manga di questo genere al momento ne vedo raramente di validi (profusione di maghette, cuori infranti, animali parlanti, ed altre amenità).
Purtroppo da tre numeri a questa parte, il mio giudizio complessivo su questo manga ha cominciato a calare, prima le amnesie, adesso l’ansia generale per la delusione d’amore di Yuki e il ritorno di vecchi personaggi apparsi molte tavole fa.
Invece di seguire l’evolversi della relazione tra Tsukushi e Domyoji, sbarazzatisi ora di tutti gli intralci possibili, la trama si sposta sul ritorno di Sara conosciuta per vie traverse da Yuki (toh, guarda… com’è piccola Tokyo…).
E via con dubbi amletici, pianti, atroce tristezza e la mamma di Yuki che urla alla figlia: “Oddio! C’è un ospite per te [sarebbe Nishikado, n.d.r.], un ragazzo stupendo! E mi ha vista senza trucco!” comportandosi peggio delle compagne di classe di Tsukushi.
Secondo me a questo punto il manga poteva benissimo terminare col numero 45, con l’aggiunta ovviamente di un epilogo, cosa dovrebbe accadere ancora?
Beh, certo, il Fujiama potrebbe eruttare costringendo tutti i nostri protagonisti a prendere il volo sull’aereo privato di Domyoji e a sorvolare dall’alto il cataclisma fino a esaurimento del carburante, oppure… passo a voi la parola, vediamo cosa immaginate che possa ancora accadere nei prossimi e ultimi due numeri della serie.

mercoledì 17 maggio 2006

"Felissa" di autore anonimo e "Diario di una gatta... non troppo per bene" di Julia Deuley


Felissa” è un delizioso libricino pubblicato nel 1811 a Londra da un autore anonimo, che narra “vita e opinioni di una gattina di sentimento” (citando il sottotitolo del libro); attraverso gli occhi di questa gatta, seguiamo le sue avventure fino alla felicità senile.
La particolarità di questo piccolo romanzo è che, pur essendo un misto tra realtà e favola, vi si ritrovano molti spunti e riflessioni sulla vita di tutti i giorni, giudizi da seguire alla lettera per diventare dei bravi esseri umani dal punto di vista acuto e ironico di una gatta, pensieri contro il razzismo e ogni forma di violenza. Oltre a servire a noi adulti, il libro può benissimo essere letto ai bambini, che impareranno attraverso i racconti della gatta Felissa ad amare gli animali e (molto importante) i loro “simili”.
Alla fine o all’inizio di quasi tutti i capitoli è presente un grazioso disegno che illustra il passaggio più importante di quel determinato racconto con tratto tipicamente Ottocentesco, Felissa ne è sempre al centro e ritratta con fattezze lillipuziane rispetto agli umani.
Ne consiglio vivamente la lettura, soprattutto a chi, come me, è soggiogato dal fascino di questo misterioso e stupendo animale che è il gatto.
Potete invece fare a meno del libro della Deuley che, copiando l’idea di fondo del suo predecessore Ottocentesco, ha pubblicato un diario di una gatta sotto il semplice titolo di “Journal d’un chat” che l’editore italiano ha avuto l’inspiegabile idea di tradurre con il prolisso e inutile “Diario di una gatta… non troppo per bene”.
Se il libro dell’anonimo inglese è piacevole e intelligente, leggendo quello della scrittrice francese ho avuto l’impressione di trovarmi di fronte a una donna misogina.
La Deuley mostra gli umani come malvagi, nevrotici, insani, pronti a commettere sugli animali ogni sorta di crudeltà e a sfogare su di loro le proprie frustrazioni.
Ma neppure la gatta protagonista risulta essere affascinante: considera gli umani dei perfetti idioti, e tratta anche coloro le dimostrano un minimo di bontà con sufficienza e disprezzo.
Una vera stronza.
L’autrice inoltre associa al gatto tutta quella mitologia legata al mondo dell’occulto, alle streghe, al sabba, sottolineando ancora di più l’aspetto oscuro di questo animale, invece di elevarlo ad esemplare enigmatico e seducente quale è.
Definire quindi i racconti del libro “deliziosi” (come riportato in seconda di copertina), mi sembra veramente eccessivo, leggerli significa fare i conti con uno stile di scrittura asciutto e quasi insipido, pervaso da un’atmosfera antipatica e impertinente, nulla in confronto a “Felissa” che resta l’unico libro “scritto” da una gatta che merita di essere letto.
Peccato che quest’ultimo libro sia ormai fuori catalogo e quindi poco conosciuto; mi era stato regalato nel 1992 (ben quattordici anni fa!!!), l’avrò riletto cinque volte (e con questa facciamo sei), l’ho maltrattato troppo - la foto è quella originale della mia copia, il cui dorso è purtroppo ormai scolorito e nella parte opposta la copertina è rovinata perché accidentalmente inzuppata d’acqua…- ogni volta che lo riprendo in mano però questo libro acquista sempre sfumature nuove, è un po’ come leggere i libri di Brunella Gasperini.

“Felissa” 9/10

“Diario di una gatta... non troppo per bene” 3/10

P. S.: curiosità: a pagina 45 la gatta non troppo per bene scopre anche il mondo di Narnia dentro a un armadio.

martedì 16 maggio 2006

"Niente di nuovo sul fronte occidentale" di Erich Maria Remarque


E’ il primo libro che leggo di Remarque, scrittore che mi era quasi sconosciuto se non per sentito dire in collegamento alla letteratura incentrata sul primo conflitto mondiale, e perché definito noioso e illeggibile da molti a cui ho chiesto pareri su questo autore.
Personalmente invece l’ho trovato ben scritto e per nulla noioso; è un libro che ti rimane impresso per la capacità di rendere “visivi” e nitidi davanti agli occhi durante la lettura le situazioni che Paolo Bäumer descrive in prima persona, in quello che dovrebbe essere una sorta di diario personale. Visioni di rara crudeltà e ferocia, che perseguitano il giovane soldato e il lettore che lo accompagna nel corso dei tre anni di guerra passati in trincea; situazioni che l’alter ego di Remarque (il romanzo ha carattere autobiografico) descrive senza mezzi termini, senza “svolazzi” stilistici atti ad indorare la pillola, cosa che rende il racconto ancora più assurdo e atroce, perché in alcuni passaggi si ha l’impressione che il protagonista racconti il tutto con freddo distacco, ed è un comportamento, questo, che mi ha sconvolto tanto quanto leggere frasi come le seguenti:

“Accanto a me, ad un caporale viene asportata la testa, di netto. Egli fa ancora alcuni passi avanti, mentre il sangue zampilla dal collo come una fontana.”

“Ecco un corpo […] le due braccia mancano come se le avessero disarticolate. Ne scopro uno, in un cespuglio, a venti passi di là. Il morto giace con la faccia a terra. […] Sotto i piedi l’erba è raspata via, come se l’uomo avesse tirato calci prima di morire.”

Descrivendo la fobia di trincea: “[…] ci fu uno, una volta, che si sforzava a tutt’uomo, con le mani, coi piedi, coi denti, di seppellirsi entro terra.”

Ma dopo questa prima freddezza, si fa strada nel protagonista uno stato di depressione e sconforto che viene accentuato dalla lontananza da casa dopo l’ultima licenza, e dalla morte che falcia ad uno ad uno tutti i compagni a cui era molto affezionato.
Rimasto solo, i pensieri più ricorrenti vanno al ritorno a casa e alla sua vita ormai rovinata, resa senza speranza e cupa da una guerra assurda che ha plasmato ogni uomo fino a limitare il suo sapere alla sola morte come unica occupazione di vita.
E sono proprio le riflessioni di Paolo a costituire la parte fondamentale di tutto il romanzo, attraverso le quali si evidenzia l’assurdità della guerra, nonostante l’avvertenza al lettore posta all’inizio del primo capitolo precisi che questo romanzo non è un atto d’accusa.
E’ un documento che potrebbe raccontare benissimo, con qualche variante, le guerre che si continuano ancora oggi a combattere, perché da allora nulla è cambiato, la dinamica della guerra è sempre quella.

9/10

sabato 13 maggio 2006

Helmut Newton - "Sex and landscapes"

Atmosfera sofisticata sui toni del nero e fucsia, lastre di vetro per terra, moquette nera, poltroncine e divanetti di velluto nero, pareti completamente ricoperte di specchi, musica in sottofondo, drappi neri che nascondono piccole salette nelle quali al buio vengono proiettati spezzoni di interviste, conferenze e il dietro le quinte di alcuni set fotografici di Helmut Newton. Ecco come si presenta la mostra a Palazzo Reale (Milano) incentrata sulle fotografie del celebre fotografo di moda, che hanno come filo conduttore i paesaggi e il sesso, scattate tra la metà degli anni ’70 e il 2002.
Peccato per l’illuminazione, che passa da perfetta (nemmeno un riflesso sul vetro delle cornici, per le quali in alcuni casi era prevista un’illuminazione proprio sul retro del quadro), a pessima con i faretti direttamente puntati sulla fotografia con la luce che rimbalza in ogni dove. L’illuminazione è il solito problema in cui si incappa spesso in mostre di questo tipo.
I due argomenti della mostra sono quindi il sesso e i paesaggi, ma la soddisfazione e il piacere di guardare in formato “gigante” fotografie che hanno come soggetto dei paesaggi (vedute aeree, scorci di vita urbana, paesaggi marini), non sono state le stesse che ho provato nel guardare le fotografie che illustrano il sesso dal punto di vista di Helmut Newton.
Non vorrei sembrare la solita femminista, ma avete idea di come la donna viene da lui raffigurata?
ELLA, in qualsiasi scatto, è ripresa nelle posture più intime possibili; completamente nuda o vestita di pelle; munita di frustini e tacchi a spillo; sistemata per terra come le bambole gonfiabili di un paio di altri scatti; fotografata sempre dal basso, angolazione questa che mette inevitabilmente in evidenza il punto G, quasi con morbosa insistenza, e nel caso in cui non si veda bene (nel caso di riprese frontali), a sopperire a questa mancanza ci pensano un bello specchio o un vassoietto opportunamente inclinati.
La ripresa dal basso secondo me non indica, come si potrebbe invece pensare logicamente, una supremazia del genere femminile su quello maschile, ma anzi è solo la miglior postura per avere subito sott’occhio “l’io più profondo” della donna.
L’uomo nelle fotografie accompagna le modelle in quattro (o poco più) scatti, è sempre vestito e guarda lascivamente le nudità femminili in chiaro atteggiamento voyeuristico. In alcune fotografie è anche sostituito da una serie di pistole (e sappiamo benissimo tutti qual è il senso metaforico di quegli aggeggi), e nell’ultimo scatto in cui appare fisicamente, di lui si vedono solo i piedi che calpestano una gigantografia vaginale. Più chiaro di così.
Per Helmut Newton la donna è un oggetto, da spupazzare, guardare, spiare (“Hinterhofakt - Paris, 1974”), esaminare clinicamente.
I critici favorevoli a questo sbandieramento “vulvare” possono benissimo dire che «questa mostra fotografica mette in evidenza dei risvolti estetici, delle riflessioni socio-culturali (???) e spunti di una liberazione ed emancipazione sessuale per nulla scontata a quell’epoca (quale, prego?)», e che «Newton non ha mai mostrato le donne come semplici “oggetti”, ma come donne consapevoli di sé, della propria bellezza e del proprio potere seduttivo», ma per la sottoscritta, in veste di DONNA consapevole di sé e della propria carica seduttiva, il farsi fotografare in maniera simile oltrepassa il limite tra nudo d’autore (guardate quelli di Man Ray o di André Kertész ad esempio: nelle loro fotografie è perfettamente visibile una certa soddisfazione femminile nel mettersi in mostra, nel guardare direttamente nell’obbiettivo) e morbosità sessuale.
Newton ha solo soddisfatto una sua voglia erotica con lo scattare simili fotografie, che definirle sotto la parola “Sex(and landscapes)” è un concetto troppo vasto, dato che l’unico soggetto mostrato è, appunto, la donna. Parlerei di “Sesso” nel caso sia mostrata anche la parte maschile.
Ribattezzerei quindi la mostra “Vulvas and landscapes”.
Buona visione.

venerdì 12 maggio 2006

"La donna di Gilles" di Frédéric Fontayne (2004)

Elisa ama Gilles che ama la cognata Victorine.
Ecco il triangolo su cui si basa tutto il film, una storia che viene raccontata più per immagini “mute” che attraverso i dialoghi.
Ma avendo letto il libro, zeppo di analisi psicologiche, mi sarei aspettata qualcosa di più dal regista Fontayne, dato che con un testo del genere si ha già tutto pronto per andare in scena.
Invece i primi piani strettissimi sull’attrice che interpreta Elisa (Emmanuelle Devos), che dovrebbero da soli spiegare tutto ciò che passa nella testa della protagonista soffermandosi sulla sua mimica facciale senza sprecare così parole, non riescono ad insinuare nello spettatore delle deduzioni adeguate sulla situazione raccontata.
Sì, lo spettatore si può arrangiare, ma così sembra tutto lasciato al caso, e la (seppur bravissima) Emmanuelle Devos non riesce a fare tutto da sola.
A metà film la situazione però cambia, Gilles confessa a Elisa il suo tradimento durante uno scatto d’ira da perfetto psicopatico, e da quel momento Fontayne abbandona la struttura da film muto per dare la parola ai tre protagonisti. In questo modo chi non ha letto il libro può capire meglio l’antefatto e la mentalità dei personaggi.
Inspiegabilmente però la vicenda, da quella sequenza in poi, non viene più vista attraverso una semi soggettiva di Elisa, ma la macchina da presa comincia a riprendere tutti gli accadimenti successivi dall’esterno, distaccandosi così da quella prospettiva che dava un tocco più intimo e più analitico a tutta la storia; quindi l’odio e la rabbia che invadono Elisa sempre più chiaramente non hanno la stessa carica e incisività che avrebbero potuto avere se analizzati ancora dallo stesso punto di vista interno.
Non mi ha convinto molto questa versione in celluloide del libro della Bourdouxhe, romanzo che era sì un po’ piatto, durante il quale pochi sono gli avvenimenti che danno ritmo alla storia, ma il film è ancora più lento, noioso e ripetitivo.
Non fatevi ingannare dal trailer del film, nel quale hanno concentrato tutti i momenti clou pieni di suspance e sentimento, accompagnandoli con brani della bella colonna sonora che però durante la pellicola si sente solo a sprazzi.

6/10

mercoledì 10 maggio 2006

"Strangers in Paradise - Pocket" n. 5


Ci sono molte novità in questo numero di SiP, e la prima è strettamente collegata alla sequenza iniziale in cui viene illustrato un sogno di Francine. I disegni della sequenza onirica non sono però ad opera di Terry Moore, ma di Jim Lee, che io non conosco, ma di cui a prima vista non apprezzo il tratto, che stravolge completamente la fisionomia di Francine e Katchoo e che risulta essere troppo legato al classico stile “americano” (quello di Spiderman & Co. per intenderci), a differenza di quello originale di Moore che è molto realistico anche se con qualche punta caricaturale.
Credo però che nella versione cartonata i disegni siano stati a colori, altrimenti non si capirebbe la domanda pronunciata da Francine a pagina 10 e che nell’edizione economica rimane un po’ ambigua dato che tutte le pagine sono stampate in b/n.
Comunque a pagina 12 ritorna tutto al suo posto, o quasi, dato che da quel punto della storia vengono via via rivelati alcuni particolari sulla vita di Francine e Katchoo tali da farmi rimanere un po’ spaesata…
Ma Terry Moore è così, è capace nel giro di tre vignette di rimescolare le carte in gioco e costringerti a rivedere da capo tutti gli avvenimenti precedenti. La sua bravura inoltre la si nota da come riesce a coinvolgerti emotivamente, a renderti partecipe della storia, e ti ritrovi così a commuoverti davanti a sequenze come quella di pagina 79-84, dove la profondità delle emozioni dei protagonisti è sottolineata maggiormente dalla pioggia che inizia a cadere sempre più copiosamente.
La rabbia, la tristezza, l’amore, la felicità, l’insicurezza, ogni emozione e sentimento la si può trovare sui volti dei personaggi di SiP, e Moore è così fedele alla realtà che mai ti chiedi se in una situazione del genere avresti la stessa espressione, perché è proprio così che il tuo volto reagirebbe. Basta guardare le vignette a pagina 65-69 (che sono poi collegate con le successive di pagina 79-84), in cui la rabbia, la sorpresa, l’odio, stravolgono in maniera repentina Katchoo e David, fino a lasciarli nella più totale tristezza.
Ovviamente però SiP è anche comico, e tra una sequenza e l’altra in cui le emozioni sono quelle più cupe, ci scappa anche qualche risata nel seguire le vicissitudini di Francine alle prese in questo numero con un nuovo lavoro.
Le trovate stilistiche, oltre al disegno vero e proprio, sono un altro punto forte di questo autore, come l’utilizzo del flash-back all’inizio di questo numero, e il taglio che dà alle vignette grazie al quale sembra che, più che vedere un fumetto, ci si trovi davanti a una sequenza filmica.
E Katchoo ha perfettamente ragione quando dice che fare un ritratto è “un momento di fiducia catturato sulla tela per sempre” e che rende quindi due persone ancora più vicine.
Mi chiedo però perché Sip è costretto ad avere pubblicazione bimestrale, dato che la sua versione cartonata è già giunta al n. 20, quindi di materiale credo ce ne sia abbastanza per pubblicare il formato Pocket ogni mese.

domenica 7 maggio 2006

"Quando l'amore brucia l'anima - Walk the line" di James Mangold (2005)

Con un titolo così ho pensato fino all’ultimo che mi sarei trovata davanti al solito film sentimentale strappalacrime come quella scemata de “I passi dell’amore”, invece il film di Mangold mi ha sorpreso. La lunghezza eccessiva della pellicola forse stona ogni tanto, ma è davvero un bel film, dove i sentimenti non eccedono nel drammone stile Harmony, ma fanno da condimento alla biografia di Johnny Cash, un cantante famosissimo in America (e semi-sconosciuto qui in Italia) per il quale l’amore ha dato la svolta definitiva, dopo vari eccessi, per poter così “rigare dritto” (appunto: walk the line).
Notevole l’interpretazione di Reese Whitterspoon che interpreta June Carter, me la ricordavo oca giuliva con vocetta stridula, invece qui non ha avuto nemmeno bisogno di essere doppiata nelle parti cantate. La statuetta vinta è più che meritata.
E Joaquin Phoenix? Lo ricordo vagamente ne “Il gladiatore”, forse perché il film non mi era piaciuto molto e inevitabilmente mi sono scordata di lui, ma cui credo sia fedele il più possibile alla figura mitica per gli americani qual’è Johnny Cash, un’interpretazione tormentata e sofferente quanto basta per lasciare il segno (non solo emotivo ma anche ormonale: Phoenix è davvero un bel figliolo…).
Gran parte della storia si snoda attraverso la colonna sonora, le canzoni cioè che hanno reso famosi Johnny Cash e June Carter a cavallo tra gli anni ’50 e ’60. I brani firmati da Cash sanno ancora essere taglienti e, nonostante gli anni passati, attuali e scommetto su un’impennata di vendite dei best of di questi due artisti.
Insignificanti però le apparizioni degli pseudo sosia di Jerry Lee Lewis e Elvis, talmente meteoritici da essere pressoché inutili. Altrimenti per inserirli nella storia si sarebbe dovuto dare più spazio alla carriera artistica di Cash, e non incentrare tutta la seconda parte del film esclusivamente sul rapporto d’amore con June e la lunga disintossicazione dalle sostanze stupefacenti di cui il cantante faceva largo uso.

8/10

sabato 6 maggio 2006

"Natale in Silver Street" di Michel Faber


Bastano due ore della vostra vita per leggere questo romanzetto a metà strada tra un seguito e un prequel (che brutto termine…) de “Il petalo cremisi e il bianco”.
Il cinismo di Faber qui viene un po’ a mancare, per essere sostituito da una scrittura in cui vengono messi in luce più i ricordi e la pura narrazione descrittiva, che le sensazioni dei personaggi (ed era sempre lì che entrava in gioco la sua bravura).
Il libro è una raccolta di racconti, nei quali prendono parola anche personaggi del tutto secondari nel precedente romanzo e nuovi (come il figlio di Sophie).
Ci sono però, in questi racconti, dei buchi spazio temporali enormi: che fine ha fatto Sugar? E se lo chiedono in molti, dato che di lei viene accennato talmente poco sulla sua nuova vita, che alla fine anch’io mi chiedo “Perché ho comprato ‘sto libro?”. E il racconto che ha come protagonista Clara? Lo ricorderò più per il raccapriccio, che per informazioni significative date sulla sorte di tutti i personaggi (informazioni qui del tutto assenti).
L’acquisto/prestito del libro vale comunque la pena per l’ultimo racconto, in cui è Henry, il figlio di Sophie, a prendere la parola, ricordando il corteo delle sufragette a Londra nel 1908 a cui partecipò con la madre. In questo caso è dimostrato che Faber se la sa cavare anche con una ambientazione Novecentesca.
Il sottotitolo del libro mi fa pensare che ce ne saranno altre di “nuove” storie del Petalo Cremisi.
Spero però sottoforma di romanzi, possibilmente di 3.000 pagine l’uno, e non raccontini buttati lì a caso come quelli contenuti in questo libricino.

6½/10


P. S.: nel 2003, quando “Il petalo cremisi e il bianco” uscì qui in Italia, già si parlava dell’uscita imminente del film tratto dal romanzo.
Che fine ha fatto?

giovedì 4 maggio 2006

"Rosso di sera" di Brunella Gasperini


Letto tutto d’un fiato!
A dispetto di “Noi e loro. Cronache di una figlia”, del quale mi era rimasto solo impresso il fastidio verso la famiglia protagonista (e autobiografica) con il suo snobismo, questo romanzo della Gasperini ha ancora la stessa ironia e voglia di vivere che caratterizza i sui racconti, e che resta anche nel narrare fatti tragici, solo un po’ dissimulata e lieve.
Rosso è il soprannome di Gianluca, un giovane Pel di carota alle prese con gli ultimi giorni di scuola prima della maturità e il primo amore adolescenziale.
Da metà racconto in poi, narrato in prima persona da Gianluca stesso, il tono scanzonato e ironico che segna tutta la prima parte della storia, lascia il posto alla rabbia, ai flussi di coscienza troppo espliciti e mirati a sottolineare l’odio e il disincanto che invade sempre di più il protagonista. Tutto questo a causa di una bruciante delusione, ma non dico di più, così magari vi viene voglia di scoprirlo da soli il seguito e chissà che continuerete a leggere tutti gli altri romanzi della Brunella.
Leggendolo mi ha fatto ritornare in mente l’ultimo anno di scuola, e l’estate dopo gli esami di maturità. Mi ha fatto però riflettere anche sul rapporto con i miei genitori, che durante i miei 18 anni era ancora un po’ difficile; mi ha commosso; mi ha divertito e al tempo stesso mi ha “illuminato” su vari aspetti della mia vita.
Nonostante sia un romanzo destinato soprattutto agli adolescenti (anche se oggi i diciottenni sono ben lontani dalla figura di Rosso), credo che letto ad ogni età dia un messaggio nuovo al lettore, più consono con il periodo che sta affrontando nel momento della lettura.
La Gasperini è davvero brava!
Devo ringraziare mia mamma che mi ha fatto leggere ai tempi della medie “Io e loro. Cronache di un marito”, ne rimasi così entusiasta che mi appropriai della sua copia (del 1976). Ormai è talmente mal ridotta, che l’anno scorso ne ho comprata una nuova della Baldini & Castoldi da maltrattare senza paura che si sbricioli in mano.

8/10

mercoledì 3 maggio 2006

"Il giorno del giudizio" di Salvatore Satta


“Mancano solo XXX pagine, ce la posso fare!” è il pensiero che mi ha accompagnato fino alla fine del libro; leggerlo è stato un conto alla rovescia verso la libertà e un bel sospiro di sollievo.
No, non mi è piaciuto, ma se in altri casi abbandonavo a metà il libro sgradito, questa volta per principio ho voltato e letto anche l’ultima riga dell’ultima pagina, non saltando nemmeno una parola. Non poteva vincere Satta, trionfando sulla mia rinuncia.
Ci sono molti aspetti del libro che non mi sono piaciuti: lo stile di scrittura, non digeribile e noioso, e mi chiedo come si fa a definire questo romanzo un capolavoro, se scritto da un autore da sempre ritenuto altamente ignorabile [cito le parole del mio docente universitario di Letteratura Italiana Contemporanea]… La stessa trama, anzi, farei meglio a dire non-trama, dato che nella rievocazione di tutti gli abitanti di un tempo ormai lontano di Nuoro non c’è un vero filo conduttore che lega ogni storia all’altra, non presenta a mio avviso nulla che possa far indurre il lettore a proseguire nella lettura del romanzo con la smania sulle dita nel girare le pagine.
Io la smania ce l’avevo, ma di arrivare alla fine e di metterci una pietra sopra.
Se dall’inizio del libro si continua a ripetere che la tristezza pervade ogni angolo di Nuoro, cittadini compresi, dalla metà circa in poi oltre alla depressione compare anche la pazzia: quasi tutti i cittadini sono ritenuti, a torto o a ragione, dementi, per arrivare poi allo squilibrio mentale vero e proprio.
La morte incombe su ognuno di loro e il narratore (probabilmente riconducibile a Satta stesso) con il suo pessimismo precisa continuamente che ogni uomo nasce portandosi addosso il peccato originale, e che non c’è libero arbitrio nella vita: nel giorno del giudizio finiremo tutti quanti all’inferno.
Le storie degli abitanti di Nuoro si intrecciano e si accavallano l’una sull’altra, e ognuna è testimone di una vita grama e infelice; solo una coppia di coniugi si salva grazie alla (poca) felicità che trova nello stare insieme per tutta la vita, ma tutto il paese li odia perché non sa che cos’è quel sorriso sul volto della sposa e che non proverà mai.
Astio, infelicità, livore, rabbia, indifferenza, questi sono i sentimenti che opprimono il paese di Nuoro.
Come si fa a trovare piacere in una lettura di questo tipo?
Io non ci sono riuscita.

4/10