domenica 18 dicembre 2005

"Mean Creek" di Jacob Estes

Trama: Sam, aiutato dal fratello maggiore Rocky e dai suoi amici, attua un piano per vendicarsi delle angherie subite da George, il bullo della scuola. Dopo aver conosciuto meglio il nemico, Sam decide però di mandare a monte l’accordo. Ma ormai è troppo tardi...

In “Mean Creek” sono presenti molti degli elementi riconducibili a romanzi come “Il signore delle mosche” e “Pic nic a Hanging Rock” in cui la storia si evolve e termina grazie, o purtroppo, al rapporto che l’uomo instaura con la natura; questa relazione sconvolge la mente dell’uomo che si trova così sopraffatto e perso in una dimensione, quella naturale, che non riconosce o dalla quale si sente attratto fino alla perdita della coscienza di sé.

Nel film i protagonisti più si allontanano dalla “civiltà” seguendo il corso del fiume su di una barca, più ognuno di loro si lascia trasportare dalla situazione in cui si trovano fino a perdere totalmente il controllo nella scena che sarà determinante per lo svolgersi del film.

Sam e gli amici sono “imprigionati” su di una barca dalla quale non c’è via di fuga, soggiogati dalle decisioni di uno di loro che già aveva dato segni di squilibrio nel momento in cui lasciano la terraferma.

L’impossibilità di fuggire è anche sottolineata dal tentativo di cercare un aiuto al di fuori dalla cerchia che si è creata fra i protagonisti, tentativo che va però a vuoto dato che l’unica risposta che ricevono è solo l’eco delle loro voci; questo fa notare maggiormente come i ragazzi siano immersi in una dimensione parallela in cui nessun altro può intromettersi e in cui si perde la cognizione della realtà e del tempo (uno di loro chiederà infatti “Che ore sono?”, proprio come in “Pic nic a Hanging Rock” in cui tutti gli orologi si fermano inspiegabilmente).

Il ritorno alla realtà, il risveglio per i protagonisti si ha quando, calata la notte, la natura circostante non è più visibile e, anzi, viene simbolicamente “uccisa” da Millie, l’unica ragazzina del gruppo, che pugnala (è proprio il caso di dirlo…) una lumaca.

Il film sotto questo punto di vista è davvero molto interessante, la storia però raccontata è la solita di tipo adolescenziale in cui alcuni giovani sono alle prese con dei giochi pericolosi, il cui film capostipite potrebbe essere “Gioventù bruciata” con James Dean (anche se lì i protagonisti studiano già all’Università).

Bravi i giovani attori fra cui Rory Culkin, fratello del più famoso Macaulay, bella la colonna sonora, un po’ meno le inquadrature sfocate e traballanti in alcune scene (e non mi riferisco certo alle riprese fatte con la videocamera da George!).

7/10

sabato 17 dicembre 2005

"Passione" di Jeanette Winterson



Trama: 1804. Mentre Henri spenna i polli per i pranzi di Napoleone che ha seguito fedelmente dalla Francia fino in Russia, la nostra connazionale Villanelle si innamora di una donna misteriosa conosciuta al Casinò di Venezia. Otto anni dopo il destino condurrà in Russia Villanelle e le farà incontrare Henri.

Il romanzo è raccontato in prima persona alternativamente dai due protagonisti; nel primo capitolo si presenta Henri e nel secondo Villanelle, mentre nei seguenti la parola passa alternativamente all’uno e all’altra, per finire, con un percorso circolare, con le parole di Henri.

Henri e Villanelle rappresentano due modi diversi di concepire la passione: Henri è completamente dedito a Napoleone, a quella figura di forte carisma che lo ha sempre affascinato fin da piccolo e che lo ha spinto, una volta cresciuto, ad arruolarsi nel suo esercito anche soltanto per spennare polli tutto il santo giorno, perché la passione che prova per lui è sacra, divina, e almeno in questo modo sa di fare qualcosa per lui e di essergli vicino; per Villanelle la passione è il destino, non è un sentimento che si può controllare perché è lei che ci domina ed annulla così il libero arbitrio.

Solo alla fine del romanzo Henri cambierà opinione accettando la teoria di Villanelle, però dopo aver provato tutto quello che la ragazza teorizzava ed essersi quindi innamorato veramente per la prima volta nella sua vita ed esser stato sopraffatto dalla passione.

La religione è ancora presente nelle vicende raccontate in questo romanzo e viene di nuovo messa in discussione: Henri non riesce ad entrare in contatto con Dio, ma trova però rimedio alla passione cercata invano per il Signore sostituendo quest’ultimo con Napoleone; Villanelle invece non è mai stata affascinata da Dio e di conseguenza non crede che la passione possa essere trasformata in qualcosa di sacro, in qualcosa che riesce a lenire la disperazione, il desiderio per una persona che ci tiene soggiogati e che amiamo fino all’ossessione.

Accanto a questa storia d’amore tra due giovani travolti dalla passione, è inserito anche l’elemento fiabesco sottoforma di aneddoti raccontati prima da Henri e successivamente da Villanelle che hanno sempre, nonostante siano fatti che potrebbero benissimo essere veri, un pizzico di irreale.

Tra le due parti che si alternano nel racconto della storia ho preferito quella di Villanelle, che ha un carattere forte e la sua ironia e il suo cinismo ne fanno una donna singolare ma allo stesso tempo dolce e puramente femminile; Henri invece mi è parso un po’ troppo effeminato, sarà perché il romanzo è stato scritto da una donna e raccontare una storia in prima persona calandosi nei panni di un uomo è sempre un progetto un po’ arduo (vale anche per gli uomini che scrivono da un punto di vista femminile!).

Lo stile della Winterson in questo romanzo è più chiaro e non si perde in ripetizioni inutili, cosa che invece capitava spesso in “Non ci sono solo le arance”.

8/10

P. S.: Se volete leggere un buon libro fra i contemporanei scritto da un uomo ma narrato in prima persona da una donna, vi consiglio “Memorie di una geisha” di Arthur Golden che lessi nel lontano 2000 quando Spielberg non aveva ancora voglia di spillare soldi per un ipotetico film tratto da questo romanzo.


venerdì 16 dicembre 2005

"Ritorno a Roissy" di Pauline Réage


Trama: O. ritorna a Roissy dopo aver trascorso l’estate con Sir Stephen. Il castello però ora si trasforma in un autentico bordello in cui O. viene usata e trattata come una prostituta di basso livello.

“Ritorno a Roissy” è il capitolo mancante di “Storia di O.”, quello che ci permette di scoprire come si conclude l’esperienza di O. come schiava di Sir Stephen.

Questo breve romanzo conta solo un centinaio di pagine, e ci mostra fino a che punto O. sia disposta a sacrificare la sua anima, la sua dignità e il suo corpo per dare piacere al suo padrone che non ci mette molto però a scaricarla nel castello di Roissy e a partire con un’adolescente in preda a voglie pruriginose.

O. legata completamente all’uomo che le ha fatto scoprire la sua sessualità, accetta di essere degradata a prostituta e ad essere pagata per farlo. Ma non riesco a spiegarmi il perché.

Se nel primo romanzo il rapporto tra O. e Sir Stephen nascondeva un minimo di affetto, in cui il rapporto schiava-padrone non prevedeva la sola sottomissione femminile ma anche quella dell’uomo che rimane soggiogato e ammaliato dalla propria schiava, in questo seguito tutto precipita nel volgare e O. è costretta a intrattenere rapporti sessuali fini a sé stessi con uomini sconosciuti che la usano come semplice oggetto di piacere e che non hanno nulla a che fare con la pratica del sadomaso.

E come se questo non bastasse si scopriranno anche segreti mai rivelati nel primo romanzo che smontano del tutto quell’aura misteriosa e sensuale al tempo stesso che avvolge il castello di Roissy e i suoi abitanti, atmosfera che rendeva tutta la vicenda di O. quasi un sogno e che nel finale scompare rivelando uomini e donne semplicemente e bassamente attratti dal sesso.

4/10

mercoledì 14 dicembre 2005

"Storia di O." di Pauline Réage


Trama: O. accetta la proposta del fidanzato René che la conduce in un castello nella periferia di Parigi. Lì la giovane sarà sottomessa dagli abitanti della dimora ad ogni tipo di ordine; la sottomissione la porterà così a trasformarsi in una schiava sessuale.

Il romanzo della Réage (che in realtà era un uomo sotto mentite spoglie) nonostante si legga velocemente è condito da troppe e lunghe descrizioni (abiti, arredamento, strumenti di tortura, ecc…) che appesantiscono la narrazione. Non capisco perché ci si debba perdere in pagine descrittive, quando sarebbe stata più utile una semplice e breve carrellata degli elementi sui quali l’autrice (o farei meglio a dire autore?) si vuol soffermare, senza però cadere nella noia, e proseguire così nella narrazione.

Forse l’autrice si sofferma a lungo sull’antefatto, su quello che precede ogni scena clou in cui O. subirà il suo ruolo di schiava, così da caricare la suspance e tenere sulle spine il lettore in un crescendo di desiderio e trepidazione che culminerà poi nell’ennesima frustata o violenza carnale.

Che poi, ad esser sinceri, le violenze subite da O. sono sempre uguali: una frustata e via, una sveltina sulla poltrona del soggiorno e via, che fantasia…

Mi aspettavo molto di più da un romanzo che viene definito un capolavoro della letteratura erotica. Stessa definizione era stata data a “Nelle sue mani” di Marthe Blau, ma che a parer mio si meritava solo 6½.

A proposito di “Nelle sue mani”, leggendo “Storia di O.” mi sono resa conto che gran parte della vicenda che ha per protagonista Elodie è ricalcata sulla storia di O., dai dialoghi con il padrone ai rapporti con i vari personaggi secondari (ad esempio: la coppia Elodie e la ragazza conosciuta al mare è il corrispettivo di O. e la sorella di Jacquelin), fino allo stesso svolgimento della storia.

Vi consiglierei di guardare anche il film tratto dal romanzo della Réage, credo sia migliore della versione originale cartacea, è molto più coinvolgente e i rapporti che si instaurano tra i vari personaggi (anche se nel film alcuni sono stati eliminati) sono narrati con più chiarezza.

5/10

P. S.: Se volete sapere quale voto si è meritato “Nelle sue mani” dopo che ho scoperto il plagio su cui si basa, potete cliccare sul titolo corrispondente nella lista qui a fianco.

lunedì 12 dicembre 2005

"La sposa siriana" di Eran Riklis


Trama: la drusa Mona sta per sposare il siriano Tallel, un uomo che non ha mai visto ma che non può rifiutare perché impostole come marito dai genitori, inoltre, dopo aver varcato il confine tra Israele e Siria ed esser così diventata a tutti gli effetti cittadina siriana, Mona non potrà più far ritorno dalla sua famiglia.

Si spengono le luci in sala, sprofondo meglio nella poltrona, appaiono sullo schermo i titoli di testa e il film ha così inizio.

Ma… c’è qualcosa che non quadra: gli attori parlano in lingua originale, ma non doveva essere doppiato? E perché i sottotitoli ogni volta che appaiono in sovrimpressione c’è sempre qualcuno o qualcosa di bianco dietro?

Strabuzzo un po’ di più gli occhi e comincio a seguire le vicende di questa famiglia drusa che vive sulle alture del Golan.

Il matrimonio di Mona è però un pretesto per parlare anche di tutti gli altri componenti della famiglia, ognuno con il suo dramma e i suoi problemi, e per raccontare soprattutto l’assurdità della legge che vige nel Golan.

Dalla metà in poi della pellicola, tutta la vicenda prosegue e termina in quella zona franca che è il confine tra Israele e Siria, dove la famiglia di Mona attende il visto necessario per la sposa ad oltrepassare il cancello che la porterà dal futuro marito.

I protagonisti sono così rinchiusi tra reti metalliche e filo spinato, ingabbiati tra loro e costretti così, volenti o nolenti, ad esaminare la loro vita e, se possibile, rimediare agli errori fatti in precedenza.

Mona per tutto il corso del film non ha diritto alla parola, e le poche volte in cui parla è solo per sottolineare la triste situazione in cui è stata costretta per volere dai genitori; ogni frase che pronuncia è legata alla tristezza, al dolore per la perdita della famiglia, nonostante stia per sposarsi e tutti siano fieri di lei. Solo alla fine del film deciderà per se stessa.

E deciderà della sua vita anche la sorella maggiore di Mona che, dopo aver passato tutta la vita guardando il mondo attraverso le restrizioni impostole dal marito, percorre la strada la sua nuova strada lasciandosi alle spalle la sua famiglia dopo aver guardato per un’ultima volta la realtà oltre le sbarre del cancello del confine (le stesse che si vedono nella locandina del film).

Questi sono due esempi femminili di ribellione, emancipazione alle regole ormai soffocanti imposte dalla tradizione, in una storia in cui gli uomini vengono messi in cattiva luce all’inizio, ma che riescono a riscattarsi poi alla fine del film (ad esempio il padre di Mona in rapporto al figlio maggiore che contro il suo volere aveva sposato una donna russa).

Lo scontro tra mentalità diverse è anche sottolineato dalle varie lingue che si parlano nel corso del film, dal francese all’inglese, fino all’ebraico.

Ma più che le parole, in questo film contano i gesti, gli sguardi che i protagonisti si scambiano, dando a tutto il film un tocco poetico.

Vederlo in lingua originale non è stato per niente noioso, anzi, la varietà di lingue parlate nel corso del film spezza la monotonia che può trasparire da una lingua di cui non conosciamo nemmeno i primi rudimenti e che per capire dobbiamo tenere sempre gli occhi incollati in fondo allo schermo per leggerne i sottotitoli, facendoci però perdere la metà delle immagini che passano dietro.

E’ un buon film che è riuscito a dare un'ampia visione sulla situazione politica e sociale in cui si trovano gli abitanti del Golan.

8½/10

domenica 11 dicembre 2005

"La seconda notte di nozze" di Pupi Avati


Trama: Bologna, immediato dopoguerra. Liliana e il figlio Nino vivono di espedienti; “sfrattati” dalla chiesa in cui avevano trovato rifugio insieme a molti altri sfollati, si mettono alla ricerca di un nuovo alloggio, mentre Liliana attende una risposta ad una lettera inviata al cognato che vive in Puglia, del quale però non ha notizie da anni. Quando Giordano riceve la lettera di Liliana non esita ad invitare, nella sua tenuta in campagna, la cognata e il nipote.

Mi aspettavo qualcosa in più da quest’ultimo film di Avati, nonostante la scenografia, il bravissimo Antonio Albanese e Katia Ricciarelli da non buttare assolutamente (dai, Vanessa Incontrada in “Un cuore altrove” recitava da cani ed era pure doppiata! Qui la Ricciarelli invece è riuscita anche a farmi commuovere), i costumi, la fotografia e i paesaggi pugliesi molto belli, la dedica apparsa prima dei titoli di coda, nonostante tutto questo, è un film che non mi ha lasciato niente. Sono uscita dalla sala chiedendomi “Ma… Cosa avrà voluto dire?”.

I cambi repentini di scena che non sembrano avere un nesso fra loro, una storia un po’ superficiale e irrisolta, le zie di Giordano che odiano alla morte Liliana per poi prostrarsi ai sui piedi ed accettarla nella loro vita, così di punto in bianco, solo per aver acconsentito a recarsi in chiesa per farsi “esorcizzare”, l’amico paraplegico di Giordano che serve poco o niente alla narrazione.

Tutti questi elementi mi hanno lasciata insoddisfatta, e se non fosse per i pregi citati all’inizio non gli darei nemmeno la sufficienza, ma in questo modo diciamo che la oltrepassa di poco.

6½/10

P. S.: Neri Marcorè… basta, per favore. Ritorna a regalare romanzi a “Per un pugno di libri”!


venerdì 9 dicembre 2005

"La niña santa" di Lucrecia Martel


Trama: Amalia vive con la sua famiglia nell’Hotel Termas gestito dalla madre; ogni pomeriggio frequenta un circolo parrocchiale con le amiche in cui si discute di religione e vocazione. Durante uno di questi incontri Amalia decide che deve redimere il Dottor Jano, un medico ospite dell’albergo.

Durante tutta la pellicola l’atmosfera è opprimente, buia, i personaggi si muovono sempre tra le solite quattro mura e quando escono all’aperto non si riesce a vedere nulla dell’ambiente circostante, come nella sequenza in cui tutti gli ospiti dell’albergo si fermano ad ascoltare il suonatore di strada, sembrano essere in una via circoscritta, chiusa in se stessa, che non ha via d’uscita, i corpi uno vicino all’altro non lasciano intravedere nulla al di fuori del cerchio che hanno creato; oppure nella sequenza in cui Amalia e le due amiche si perdono in un bosco spaventate, urlando senza motivo, correndo a destra e a manca non trovando un’uscita da quella specie di incubo.

Il film è quindi per la maggior parte girato nell’albergo, in cui spiamo la vita della piccola comunità che si è andata a creare intorno ad esso. Nelle stanze, con quella orribile carta da parati, quei colori cupi, quel marrone che domina da ogni parte, sembra che la macchina da presa entri per spiare e non per seguire le storie dei personaggi, personaggi che a volte sembrano aver allacciato rapporti ambigui fra di loro, una coppia su tutti è quella formata dalla madre di Amalia e suo fratello che dividono la stessa stanza da letto e si guardano, si toccano, in un modo che ha ben poco del sentimento fraterno.

La stessa Amalia ha per amica la coetanea Josefina con la quale non sembra avere, nonostante tutte le buone parole spese al circolo parrocchiale, una classica amicizia.

Anche Josefina si allontana dalla bigotta educazione datale dalla famiglia e finisce immancabilmente a letto con un amico, della cui identità ho capito poco o niente così come della povera nonna di cui si parla sempre ma non si vede mai e al suo posto nel letto ci finiscono sempre Josefina e l’amico.

Amalia però, ligia ai suoi doveri di “santarellina”, decide di aiutare il Dottor Jano a redimersi.

Il Dottor Jano ha però nei confronti della giovane attenzioni non troppo paterne, nonostante allo stesso tempo accetti la corte sfrontata della madre di Amalia.

Il finale, così come tutti i personaggi presentati nel corso del film, è anch’esso ambiguo e rimane aperto, irrisolto. Come irrisolti lo sono tutt’ora i miei dubbi riguardo questa pellicola.

6/10?

(non sono ancora sicura del voto, troppi dubbi e storia irrisolta)


giovedì 8 dicembre 2005

"La bestia nel cuore" di Cristina Comencini


Trama: Sabina vive felice con il compagno Franco e fa un lavoro che la soddisfa completamente insieme all’amica Maria. Ma quando scopre di aspettare un bambino ogni notte strani incubi la assalgono. Sicura che il fratello Daniele, che vive negli Stati Uniti, possa aiutarla a fare luce sulle angosce che la tormentano, decide di recarsi da lui.

Cristina Comencini è riuscita ad alternare al drammatico tema trattato alcune “gags comiche” che non stonano affatto con l’argomento portante del film, in questo modo tutto è raccontato con delicatezza e interpretato con grande bravura dagli attori sia principali che secondari.

La bestia del titolo credo si possa associare non solo al segreto che i due fratelli protagonisti cercano di dimenticare, ma la si può collegare anche al tradimento di Franco e alla paura di Maria di lasciarsi andare in una storia d’amore “inusuale” per lei ma a cui non riesce a rinunciare.

Fra gli attori spicca Angela Finocchiaro che in tutti questi anni non credo sia stata mai considerata degnamente dal cinema italiano, in questa pellicola si nota finalmente quanto sia brava, soprattutto perché a lei è affidata una parte in cui poche credo siano capaci di immergersi completamente e senza remore.

Anche Stefania Rocca è stata una scoperta, l’ho vista sempre interpretare filmetti un po’ scadenti o (tempo fa) di stampo adolescenziale, in questa pellicola invece è davvero brava e sembra finalmente saper recitare.

Mediocre l’interpretazione di Luigi Lo Cascio, e lo si nota maggiormente nella drammatica scena in cui spiega alla sorella il significato degli incubi che la tormentano. Lo Cascio sembra essere sempre sottotono anche quando deve parlare del più e del meno o fare da cicerone a Sabina.

Sicuramente meritato il premio come miglior attrice a Venezia per Giovanna Mezzogiorno.

Avevo già apprezzato Alessio Boni ne “La meglio gioventù” (in cui tra l’altro Luigi Lo Cascio non mi era sembrato un granché come “rivelazione dell’anno”…), qui non fa altro che riconfermare la sua bravura.

Un cast (quasi) perfetto quindi, per una storia ben articolata in cui ogni personaggio serve allo sviluppo del film.

8½/10

P. S.: da vedere la sequenza dell’incubo di Sabina che mi ricorda molto gli incubi di Marnie in “Marnie” di Alfred Hitchcock.

mercoledì 7 dicembre 2005

"La piccola Lola" di Bertrand Tavernier


Trama: Géraldine e Pierre non riescono ad avere figli, e decisi ad adottare un bambino si accorgono che l’iter burocratico per un’adozione in Francia è troppo lento. Partono così per la Cambogia sicuri che lì tutto sarà più facile. Ma non è come sembra…

Due infinite ore per raccontare le vicissitudini di due giovani sposi decisi ad adottare una bambina cambogiana. Due ore in cui seguiamo i due sposi attraverso le tappe e le difficoltà per riuscire ad adottare la piccola Lola, fino al sofferto e stiracchiato lieto fine (stiracchiato nel senso che nel momento in cui le luci in sala si sono accese tutti gli spettatori, me compresa, si stiracchiavano allegramente).

Due ore sono comunque troppe, tenendo conto anche che per 3/4 di film tutti i personaggi non fanno altro che piangere, disperarsi, urlare, incazzarsi e prendersi a pugni.

Belle le sequenze in cui i due coniugi registrano la loro voce su un registratore attraverso il quale “parlano” con un bambino che ancora non c’è. Bravi gli attori, in particolare i due protagonisti.

Per il resto lo si potrebbe identificare con un documentario di denuncia sociale sottoforma di film drammatico.

Da vedere se avete intenzione di adottare un bambino in Cambogia, così sapete cosa vi aspetta…

6½/10

martedì 6 dicembre 2005

"Nelle sue mani" di Marthe Blau


Trama: Elodie accetta di presentarsi a un misterioso appuntamento datole da un aitante avvocato suo collega. Durante quell’incontro e i successivi, l’uomo inizierà ad esercitare su Elodie un potere psicologico fatto di sottomissione e giochi erotici, che alternano il piacere al dolore, e che la ridurranno a sua schiava.

Tra “Le età di Lulù” e questo romanzo, preferisco di gran lunga quest’ultimo.

Pur affrontando lo stesso tema dell’eros, del piacere anche violento, il romanzo della Grandes l’ho trovato volgare e gratuito in tutta quella serie sconfinata di rapporti sessuali di tutti i generi; “Nelle sue mani” invece ha la particolarità di approfondire il lato psicologico della vicenda, facendo raccontare alla stessa protagonista il rapporto con l’uomo misterioso che l’ha introdotta nell’ambiente del sadomaso; di lui non sapremo (né tanto meno saprà Elodie) nulla, nemmeno il suo nome di battesimo e rimarrà solo una figura quasi astratta.

La relazione ambigua che si instaura tra Elodie e Lui (con la lettera maiuscola) cambierà completamente la vita della protagonista che si ritroverà soggiogata e torturata dalla gelosia per un uomo che non le ha mai dimostrato il minimo interesse e affetto.

Definirlo però un romanzo “che entra di diritto in una grande tradizione letteraria” (come grida la quarta di copertina), mi sembra un po’ eccessivo, leggete ad esempio “Justine o le disgrazie della virtù” del Marchese de Sade, lui sì che non lo batte nessuno.

6½/10

RETTIFICO:

Dopo aver letto “Storia di O. di Pauline Réage pubblicato nel 1954, quindi molto tempo prima del libro della Blau, mi vedo costretta a cambiare radicalmente opinione su questo libro.

Gli avvenimenti, i pensieri, i dialoghi con il suo padrone che porteranno Elodie a sentirsi completamente soggiogata e di proprietà di Lui, sono in gran parte ricalcati sul percorso compiuto da O. per diventare schiava di Sir Stephen.

Grande delusione.

(Ri)leggere per credere!

4/10

lunedì 5 dicembre 2005

"Moll Flanders" di Daniel Defoe


Trama: Inghilterra, 1683. L’ultra settantenne Moll Flanders si diletta scrivendo le proprie memorie.

Moll Flanders narra nelle sua autobiografia le avventure e le peripezie che ha dovuto affrontare per arrivare a condurre una vita più che rispettosa.

Durante la lettura del romanzo il nervoso mi assaliva ad ogni scemenza che Moll Flanders combinava, come se gli sbagli commessi in precedenza non le avessero insegnato nulla. E l’assurdo è che si rivolge ai lettori con l’intento di aiutarli a non commettere i suoi stessi errori, ad imparare dalle disgrazie altrui.

Io dovrei imparare qualcosa dalle sue disgrazie? Dalle disgrazie di una donna che ha cercato in tutta la sua vita di accalappiarsi il marito più redditizio in fatto di patrimonio? Da una donna che ha partorito più di dieci figli e che li ha abbandonati, uno a uno, senza pietà perché accecata dalla sete di denaro, venale quale era? Da una donna che dà sempre la colpa al “maligno” per tutti gli atti poco ortodossi che ha commesso, invece di prendersi le sue responsabilità? Da una donna che tocca il fondo vendendo il suo corpo al cliente che le darà la più sostanziosa “ricompensa”? Da una donna che invoca l’aiuto di Dio dopo aver fatto sì che un povero disgraziato venisse impiccato al posto suo?

Nonostante Moll Flanders si torturi addolorata per le pene arrecate al povero individuo di turno al quale ha rubato qualcosa, questo sentimento di pena e dispiacere col passare del tempo scema fino a scomparire quasi del tutto.

Non mi è per niente piaciuto il messaggio che traspare da questo libro, non c’è proprio un’accusa diretta alle truffe, agli intrighi, e altro ancora da lei commessi; e l’apice si tocca quando Moll Flanders, per semplice botta di culo dopo aver pagato una salata cifra in denaro, scampa alla forca.

Non metto però in dubbio l’alto valore artistico di quest’opera, che ho sicuramente preferito a “Robinson Crusoe”.

6/10

domenica 4 dicembre 2005

"Steamboy" di Katsuhiro Ôtomo


Trama: Inghilterra, fine Ottocento. Il giovane Ray riceve dal nonno scienziato Lloyd una misteriosa sfera di metallo. Il ragazzo, ignaro del vero utilizzo di questo oggetto, viene coinvolto in una serie di incredibili avventure e perseguitato da dei loschi figuri che se ne vogliono impossessare.

I fans di Ôtomo aspettavano dal 1988 un suo nuovo lungometraggio. Beh, dopo quasi vent’anni d’attesa, tutto quello che Ôtomo è riuscito a produrre è solamente un’accozzaglia di inseguimenti al limite dell’impossibile che faranno la gioia di tutti gli amanti degli effetti speciali e soprattutto delle americanate; dialoghi poco comprensibili; personaggi non ben delineati caratterialmente; disegni superficiali e una storia davvero noiosa. E poi, scusate, i bambini hanno tutti la stessa faccia! L’unica cosa che li distingue è che le femmine sarebbero i maschi con l’aggiunta di capelli lunghi.

“Pazzesco! Entusiasmante! Tecnicamente perfetto!” è uno dei tanti commenti che ho letto scritti da vari spettatori dopo la visione del film, commenti che non appoggio assolutamente; tutti tendono a paragonare Ôtomo a Miyazaki, io quando ho visto per la prima volta “Steamboy” ho cercato di analizzarlo senza farmi condizionare da altri film d’animazione che avevo visto in precedenza, anzi, mi sono avvicinata a questo film con la curiosità di scoprire un nuovo regista di cui non sapevo assolutamente nulla.

Purtroppo ne sono rimasta talmente delusa che per arrivare alla fine c’è voluta una settimana: ho visto il film interrompendo per ben tre volte il dvd.

E mi sono anche addormentata.

4/10

venerdì 2 dicembre 2005

"My summer of love" di Pawel Pawlikowski


Trama: durante un pomeriggio assolato la solitaria Lisa (soprannominata “Monna”) conosce per caso Tamsin, figlia di un ricco uomo d’affari. Le due ragazze trascorrono insieme il resto dell’estate, mentre il loro rapporto evolve in qualcosa di più intenso ostacolato però da Phil, il fratello bigotto di Monna.

Monna e Tamsin sono l’una l’opposto dell’altra: la prima subisce le decisioni del fratello, scopertosi improvvisamente un fervente cattolico, mentre tenta di spingerla sulla retta via; la seconda è ricca, viziata, è stata sospesa da scuola per il suo cattivo ascendente sui compagni e dai suoi atteggiamenti da donna vissuta è chiaro che cerca di essere sempre al centro dell’attenzione perché annoiata.

La noia però, anche se entrambe hanno trovato un’alleata nella rispettiva amica, continua ad opprimere il trascorrere delle giornate estive delle due ragazze sottoforma di sigarette fumate in continuazione mentre si guarda il soffitto o il cielo senza dire una parola, bicchieri di vino bevuti fino a stordirsi e funghi allucinogeni mangiati per cercare di darsi una “botta di vita”.

L’unico conforto al tedio della vita è il costruirsi un idolo, un’icona da adorare, tutti e tre i protagonisti infatti hanno qualcosa in cui credere: Phil trova conforto nella religione cattolica, trasformando la sua vita in una missione di redenzione del mondo intero e arriverà anche a costruirsi un mastodontico crocifisso che isserà sulla collina di fronte a casa sua che dominerà così ogni momento della sua vita come monito; Monna disegnerà il volto di Tamsin su una parete della sua camera e passerà, nell’attesa di rivederla, ore a contemplare e baciare il disegno; Tamsin invece si crogiola nel ricordo della sorella morta di anoressia e la richiamerà nel mondo dei vivi tramite una (finta) seduta spiritica.

Si sfiora la tragedia nel finale del film quando Phil, compreso il vero rapporto che si è instaurato fra la sorella e Tamsin, costringerà Monna a non rivedere l’amica, ma… meglio non analizzare oltre il finale perché rovinerei tutto, finale che comunque mi ha lasciata di stucco.

Nonostante il basso budget usato per le riprese; la macchina da presa a mano che lasciava un po’ a desiderare nelle inquadrature e soprattutto in quegli zoom un po’ penosi; la recitazione alle prime armi delle due protagoniste che non riuscivano a calarsi nelle scene più drammatiche; nonostante tutto questo, dicevo, il film è notevole per il modo in cui il regista ha scelto di interpretare una storia di questo tipo, ma il pregio assoluto va all’inquietante colonna sonora composta dai Goldfrapp (uh-la-la-la-la…) che segue, diventando sempre più ipnotica, la storia d’amore tra Monna e Tamsin, storia che è poi tratta dal romanzo scritto da Helen Cross finalmente uscito anche qui in Italia.

Unico lato veramente negativo è la figura di Phil che con tutte quelle sue manie di protagonismo, gli scatti d’ira e l’abominevole crocifisso (per il quale io e il mio compare abbiamo sghignazzato per cinque minuti buoni) non serve assolutamente all’evolversi della storia tra Monna e Tamsin che tanto, con o senza di lui, il film sarebbe finito in quel modo comunque.

7½/10

P. S.: vi siete accorti che all’inizio del film Lisa si presenta come “Monna” e da metà pellicola in poi viene chiamata “Mona” con una “n” sola?

mercoledì 30 novembre 2005

"La sposa cadavere" di Mike Johnson e Tim Burton


Trama: XIX secolo. Victor sta per sposare la fidanzata Victoria, ma imbranato quale è non riesce a ricordarsi il rito nuziale che deve recitare da lì a poche ore. Disperato si allontana dal paese e finisce per perdersi in un lugubre bosco. Sarà lì che risveglierà per sbaglio il cadavere di una giovane sposa assassinata anni prima.

Mike Johnson e socio (per pareggiare la fama non cito Burton ché è già fin troppo riconosciuto, mentre Johnson non lo caga nessuno…) hanno impiegato dieci anni per finire questo film d’animazione completamente girato in stop motion, la stessa tecnica utilizzata anni fa per girare “The nightmare before Christmas” uscito nel 1993. Facendo qualche calcolo… i due registi praticamente si sono fermati un paio d’anni per riprendere fiato e nel 1995 hanno subito ricominciato le riprese per “La sposa cadavere”.

Anche in questo lungometraggio il tema della morte in conflitto con il mondo dei vivi è presente (che Tim Burton stia preparando una trilogia…?), qui però la storia prende spunto da una leggenda ebraica ed è tutta giocata sui contrasti: tanto più il mondo dei morti è vivo e colorato, tanto più quello dei vivi è triste, oscuro nel quale prevale il blu (non a caso in inglese “blue” significa “tristezza”); la differenza tra i due mondi salta maggiormente agli occhi nella sequenza del balletto degli scheletri, mentre in superficie piove a dirotto e la città è sempre oppressa da un’atmosfera lugubre.

Le stesse protagoniste femminili, Victoria ed Emily la sposa cadavere, sono l’una l’opposto dell’altra: Victoria vaga nella sua spoglia dimora (nella quale l’unico accenno di vita è un fiore ormai appassito) col colorito smunto e infilata in abiti castigati tutt’altro che sensuali; Emily passeggia provocante mettendo bene in vista le labbra carnose e gli occhioni dalle lunghe ciglia.

Chi fa da tramite tra i due mondi è Victor, che cerca in tutti i modi di ritornare dall’amata Victoria (i nomi stessi fanno già presagire come si concluderà la storia: “Victor-Victoria”), a lui è associata la figura del pomposo lord che cerca di rubargli la scena.

I genitori dei due futuri sposini sono invece collegati dalla silhouette grassa (la madre di Victor e il padre di Victoria) e magra (il padre di Victor e la madre di Victoria).

Odio i ragni, ma la “vedova nera” amica di Emily era veramente carina, con le sue movenze civettuole da gattina.

Varie le citazioni, da “Via col vento” a Joyce, fino alla “Antologia di Spoon River”.

Il doppiaggio italiano una volta tanto sembra essere fatto come si deve, non mi è però piaciuta la voce con accento romanesco affibbiata allo scheletro canterino.

9/10

P. S.: avete notato che le sembianze dei pupazzi sono esattamente ricalcate su quelle degli attori che gli hanno dato la voce, e che nei titoli di coda i doppiatori originali (da Johnny Depp fino a Emily Watson) sono citati come veri e propri interpreti del film

martedì 29 novembre 2005

"La mia vita a Garden State" di Zach Braff


Trama: Andrew torna nella sua città natale, dopo nove anni di assenza, per il funerale della madre. Nel week-end trascorso nel suo paese natio si vede costretto a farsi un esame di coscienza e a capire se il tempo trascorso lontano da casa sia servito a risolvere i contrasti con il padre.

Sapete chi è Zach Braff che oltre a firmare la regia del film ne è anche il protagonista? Sì, è proprio il Dottor John di “Scrubs”; ma personalmente non credo che questo film si possa collegare al telefilm trasmesso da Mtv, ed è proprio questo il motivo per cui in molti ne sono stati delusi: troppi paragoni con “Scrubs” che non trovano fondamento.

In molti si sono chiesti perché Braff per tutta la durata del film ha quell’espressione da ameba, da rimbambito. Beh, come vi sentireste voi se per tutta la vita siete stati vessati da un padre che vi ha imbottito di farmaci? E che, dopo la vostra decisione di farvi una vita da soli, da adulti, vi perseguita con le sue teorie da Dottor Lecter? E se, soprattutto, nella vostra carriera da attore siete riconosciuti solamente per la vostra parte da ritardato in un telefilm? Quindi l’interpretazione di Braff riflette alla perfezione il senso di angoscia e smarrimento del protagonista.

Per quanto riguarda la trama, è la solita storia in cui il passaggio definitivo all’età adulta del protagonista, ingabbiato fino a quel momento in un ruolo che gli va ormai stretto, avviene grazie al confronto con gli amici d’infanzia che sono rimasti al punto di partenza, con la famiglia e l’avvento dell’amore mai conosciuto prima in una vita grigia e monotona.

Ecco, questo è il succo del film. Se spremiamo ancora un po’ troviamo però una bella interpretazione dell’attore protagonista (che, è da notare, ha dovuto dirigere tutto il film e anche se stesso per la prima volta nella sua carriera cinematografica), divertenti gags, discorsi profondi (anche se la presunta epilessia del personaggio interpretato dalla Portman, Samantha, è affrontata in maniera superficiale, così come la paralisi della madre di Andrew), una bella fotografia e un’azzeccata colonna sonora (che anche da sola vale il prezzo del biglietto!).

Pecca un po’ il finale spudoratamente scopiazzato da due film culto come “Il laureato” e “I vitelloni”: per il primo mi riferisco alla scena in cui Andrew, presa la decisione di non tornare in città, bacia Samantha appassionatamente per poi finire con i due che si guardano un po’ straniti chiedendosi “E ora???”, proprio come ne “Il laureato” fecero Elaine e Benjamin dopo esser scappati su un autobus con lei in abito nuziale; per il secondo mi riferisco alla sequenza in cui, mentre Andrew percorre gli ultimi metri che lo separano dall’aereo che sta per prendere, passano in carrellata le immagini che ci permettono di scoprire cosa stanno facendo i sui amici in quel momento (cioè NULLA, come sempre…), stessa tecnica la si ritrova nella sequenza finale de “I vitelloni”.

7/10


P. S.: Forse non tutti sanno che… Garden State non è il nome del paese natio di Andrew, ma bensì un soprannome con cui in America chiamano lo stato del New Jersey.

sabato 26 novembre 2005

"Storia di Piera" di Marco Ferreri

Trama: il film prende spunto dalla storia autobiografica della attrice Piera Degli Esposti, che poco più che bambina si trovò costretta ad accudire la madre affetta da crisi isteriche e ninfomania. Questo loro rapporto di amore-odio durante la crescita di Piera si trasforma in un sentimento che va oltre al semplice affetto tra madre e figlia.

Non credete che la visione di questo film sia così facile come leggere la trama che ho riportato qui sopra. Il film non segue un filo logico, se non quello della crescita della protagonista dal 1939 agli anni ’80.

Della situazione famigliare di Piera si intuisce soltanto che entrambi i genitori sono affetti da disturbi psichici, in particolar modo la madre che, nonostante l’elettroshock a cui venne sottoposta come estremo rimedio al degrado in cui precipitava la sua personalità, cercò sempre di attirare la figlia nel circolo vizioso in cui era caduta, fino alla totale accettazione di Piera a seguire la madre nelle sue escursioni notturne in cerca di avventure; c’è un fratello che appare e scompare a piacimento del regista durante il corso del film, così come i molti personaggi secondari che ad ogni sequenza vengono dimenticati per essere sostituiti da altri.

Non viene spiegato in modo chiaro il vero legame che unisce Piera ai genitori, con i quali sembra avere un rapporto incestuoso; si può solo intuire il motivo del ricovero in ospedale di Piera e quello dell’amicizia che la lega ad una ragazza; non viene mostrato il percorso artistico di Piera fino alla sua affermazione di attrice, cosa che è dura da intendere fra le righe se non si ha almeno una minima idea di chi rappresenti in realtà la protagonista, cioè l’attrice Degli Esposti.

Al termine del film la stessa Piera si rivela essere come la madre, mentre fino a quel momento sembrava essere l’unica ad avere un po’ di “sale in zucca”, ma i dialoghi senza senso, soprattutto quelli con il padre, già presagivano qualcosa.

Ma l’apoteosi del nonsense si ha con l’arrivo in scena di Loredana Berté.

Qual è lo scopo del film? Forse far perdere tempo allo spettatore.

Aspetto di leggere il libro da cui è tratto questo film per farmi un’idea un po’ più accettabile.

N. C.

P. S.: Va bene che il film è del 1983, ma dovevano proprio farlo uscire nelle sale con quella orribile locandina?
Se il film è l’apoteosi del nonsense, la locandina lo è del trash!

martedì 22 novembre 2005

"Non ci sono solo le arance" di Jeanette Winterson



Trama: adottata da una famiglia molto religiosa della provincia inglese, Jeanette cresce imparando cos’è la vita sulle sacre scritture. Quando però inizia a frequentare una scuola pubblica si rende conto che tutto quello che le è stato inculcato dalla madre bigotta ha poco riscontro nella “realtà”, soprattutto quando la sua relazione sentimentale con una coetanea mette scompiglio nella piccolo paesino in cui vive.

Romanzo di esordio della Winterson, con il quale è stata insignita del prestigioso Whitebread Award, narra in maniera autobiografica la sua infanzia fino all’età adulta quando lei stessa decide di dichiarare apertamente la sua omosessualità alla comunità in cui è cresciuta.

Anche se il romanzo in sé è molto valido, quello che non mi è piaciuto è lo stile di scrittura della Winterson che tutti decantano in maniera entusiastica.

Nel corso della narrazione l’autrice ha spesso il vizio fastidioso di ripetere fatti o curiosità già menzionati; e durante la lettura del libro non ci vengono date informazioni sufficienti per capire di quale periodo della sua vita l’autrice stia parlando.

Quello che trae in inganno è anche la mancanza d’evoluzione del personaggio: non ho notato la crescita, il passaggio dall’infanzia all’età adulta della protagonista; la scrittura è piatta, l’autrice per parlare di sé bambina utilizza lo stesso linguaggio per parlare di sé adulta.

I personaggi che rappresentano la Chiesa Cattolica (il prete, la madre e tutta la comunità locale), tentano in tutti modi di ostacolare Jeanette, rea di aver peccato. Ma la parte del cattivo è talmente ridicola e caricaturale, anche quella del prete, che stento a credere che ci possano essere dei ferventi cattolici di questo tipo (che tra l’altro sembrano finti).

Non capisco perché dopo aver speso fiumi di parole per la “riabilitazione” delle lesbiche, Jeanette si rassegni a vivere con sua madre, nonostante quest’ultima si fosse resa conto che “in fondo non ci sono solo le arance” (metafora che indica il voler ghettizzare le inclinazioni sessuali in circoli ben predefiniti e dai quali non c’è scampo, in questo caso l’arancia simboleggia il giusto percorso che ogni uomo deve fare per rimanere sulla retta via); la madre quindi accettando in un certo senso la decisione della figlia, dovrebbe dare la spinta decisiva a Jeanette per iniziare una nuova vita, senza il dubbio assillante di stare sbagliando, Jeanette però decide di ristabilirsi nel suo paese natio e di continuare a fantasticare sul modo più adatto per chiudere con il passato e la sua famiglia.

Ma al di là di queste mie critiche, sicuramente questo libro servirà a chi ha le idee confuse sul rapporto tra religione e omosessualità perché il messaggio è molto chiaro e rimarrà impresso nel lettore, e non sarebbe brutto veder inserito questo romanzo fra le letture scolastiche.

5/10 per lo stile di scrittura

7/10 per la storia

lunedì 21 novembre 2005

"Il castello errante di Howl" di Hayao Miyazaki


Trama: la diciottenne Sophie lavora nel negozio di cappelli di famiglia. Un giorno in città incontra per caso il Mago Howl di cui tutti parlano per la sua straordinaria bellezza e per il suo curioso castello semovente. La Strega delle Lande Desolate, che era all’inseguimento di Howl, quando vede i due giovani insieme lancia una maledizione all’ignara Sophie scambiata per una complice del Mago. La ragazza si ritrova così invecchiata di colpo e per riuscire a sciogliere l’incantesimo si mette alla ricerca di qualcuno che possa aiutarla a riappropriarsi della sua vera età. Durante il cammino si imbatte nel castello errante di Howl dal quale si fa assumere come donna delle pulizie.

“Il castello errante di Howl” è una summa di tutti i temi trattati finora da Miyazaki nei suoi film: la guerra, il male da combattere contro forze oscure e sconosciute; il tema del volo come simbolo della “fuga dalla realtà”; ambientazione non ben definita ma comunque di stampo europeo (da vedere per questo particolare anche “Kiki’s delivery service”); epoca in cui si svolge la storia intorno ai primi del Novecento anche se molti elementi fanno pensare ad una contaminazione con altre epoche; una giovane protagonista che deve affrontare le difficoltà della vita e prova per la prima volta amore verso un compagno.

Da notare che Miyazaki si rivolge ad un pubblico di età giovanile e molto spesso femminile in Giappone, ecco perché i protagonisti dei sui film sono quasi sempre giovani che affrontano la vita; le sue opere si possono vedere anche sotto l’ottica del film di formazione.

In Italia invece il pubblico presente in sala non era per niente giovane, bambini presenti: due. E non so quanto avranno capito del film, soprattutto per il finale, che nei film di Miyazaki deve essere sempre interpretato analizzando anche elementi un po’ oscuri e significati nascosti.

Ecco perché mi ostino a dire che il cinema d’animazione NON è solo per bambini.

Spicca ancora la bravura di Miyazaki, la minuzia di particolari nei disegni, i movimenti fluidi e assolutamente perfetti dei personaggi, i vestiti e i capelli che si muovono al vento, le lacrime della mamma di Sophie che rigano il suo volto, i colori vivi, la psicologia dei personaggi molto approfondita anche per i personaggi secondari come ad esempio Calcifer, la splendida colonna sonora firmata da Joe Hisaishi e molto altro ancora. Bellissimo, stupendo!

Ci sono però alcuni passaggi non chiari nella storia, pecca che ho riscontrato anche in altri film di Miyazaki, e mi riferisco ad esempio alla sequenza in cui la mamma (vera o presunta) di Sophie si reca dalla giovane, le parla supplicandola e se ne va in carrozza come se niente fosse, questo passaggio è poco chiaro anche perché la madre di Sophie sparisce per tutto il resto della storia; o ancora il finale un po’ troppo affrettato in cui mi sarebbe piaciuto avere qualche informazione in più sulla storia dello spaventapasseri.

Ma con i film di Miyazaki non bisogna farsi troppe domande, anche perché questi piccoli “errori” sono pienamente ricompensati da tutte le emozioni che questo regista è in grado di farci provare con dei semplici personaggi disegnati su un pezzo di carta.

E’ un capolavoro da vedere assolutamente “senza fallo”!

9½/10

P. S.: non notate una certa somiglianza…?


Hayao Miyazaki e il cagnetto Heene.


domenica 20 novembre 2005

"La tigre e la neve" di Roberto Benigni


Trama: Attilio nel tentativo di riconquistare la donna che ama è disposto a seguirla fino a Bagdad mentre la guerra imperversa portatrice di desolazione e morte.

Incuriosita dall’ultima opera di Benigni mi son detta “Perché no? Andiamo a vedere il suo ultimo film”, nonostante tutte quelle sue comparsate in tv puzzavano lontano un miglio di pura e semplice “propaganda” per la sua ultima fatica che evidentemente non attirava abbastanza pubblico in sala.

Il trailer visto in tv sembrava suggerire molte gags divertenti come Benigni ha sempre saputo inventare, peccato che le uniche che mi hanno soddisfatta veramente sono state solo quelle che avevo già visto in tv.

Puntiamo allora tutto sui contenuti, mi son detta, ma a parte le poesie e i concetti filosofici di Reno, mi è sembrato che il tutto scadesse nel ridicolo; la trama prima di tutto, intrecci e colpi di scena che non reggono: ad esempio come ha fatto Attilio a raggiungere Bagdad senza nessun intoppo? Come ha fatto, con la carenza di medicinali che imperversava nel paese, a trovare quelli che cercava? E il beverone di glicerina preparato in casa con mezzi di fortuna somministrato a mo’ di aperitivo con la cannuccia?

Va bene, si tratta di finzione e la presenza martellante della poesia, del sublime, dei sentimenti dovrebbe sottolinearlo, ma non dimentichiamoci che si sta parlando comunque di guerra, in Iraq, e che quella non è stata inventata di sana pianta per esigenze cinematografiche.

Lo stesso Benigni nel recitare non è convincente, ha conosciuto tempi migliori, e poteva evitare quel grazioso epiteto sicuramente fuori luogo urlato alla sua donna mentre scappa su un tram; Nicoletta Braschi invece mi è piaciuta, ma tenendo conto che per 3/4 di film giace come un’ameba in un letto…

Si salvano solo la colonna sonora e il finale con la trovata geniale di riuscire a mettere “una tigre sotto la neve”.

Appena uscita dalla sala ho pensato di dargli un 8, ma ripensandoci gli do:

6/10

E non me ne voglia Hawk se ho cambiato idea…

sabato 19 novembre 2005

"La spettatrice" di Paolo Franchi



Trama: Valeria conduce una vita solitaria a Torino, ha solo un’amica e per lenire il senso di inadeguatezza che la tormenta trova sollievo spiando il suo vicino di casa. Quando l’uomo si trasferisce a Roma lei decide di seguirlo.

Il tema tragico e impegnato con cui Franchi ha deciso di esordire come regista è affrontato in maniera adeguata e convincente, soprattutto grazie alla bravura di Barbora Bobulova che è riuscita a calarsi completamente nel personaggio protagonista sul quale grava la buona riuscita del film.

La sequenza iniziale mi ha molto ricordato, complice la colonna sonora, i film di Alfred Hitchcock e in particolare “La finestra sul cortile”: Valeria spia nel buio della sua stanza il dirimpettaio Massimo cercando di scacciare in quel modo i demoni che la perseguitano, così come succede (in un certo senso) a Jeff in “La finestra sul cortile” che, per trovare uno svago alla condizione di malato in cui si trova, spia i vicini del palazzo di fronte.

Ed è proprio nel ruolo di semplice spettatrice che Valeria vive la sua vita, non riesce ad interagire con chi le sta intorno, nemmeno con l’unica amica che non perde tempo ad invidiarle la sua capacità di stare da sola; stesso discorso le farà Massimo quando i due si incontreranno, non proprio casualmente, a Roma dove la giovane lo ha seguito.

Anche a Roma però Valeria è sola e il senso di angoscia che percepiamo guardandola camminare per strada, lavarsi in uno squallido bagno d’albergo, bere un caffè in un bar, non l’abbandona; ma mentre prima eravamo noi che guardavamo gli altri attraverso i suoi occhi, adesso siamo noi che spiamo lei dietro una finestra dell’albergo, questo perché Valeria ha preso la prima decisione ferma e definitiva della sua vita: seguire l’uomo di cui si è invaghita per dare una svolta alla situazione in stallo in cui si trova e, non essendo più la spettatrice, il suo ruolo viene passato momentaneamente a noi spettatori.

Una serie di coincidenze (forse troppe) fanno sì che Valeria riesca a insinuarsi lentamente nella vita di Massimo grazie anche alla sua compagna, Flavia, per la quale Valeria inizia a lavorare.

La ragazza ora non è più spettatrice della vita in generale ma, senza volerlo, diventa quella della storia difficile tra l’uomo che ama e la sua compagna, e ne segue il percorso tormentato che porterà fino all’allontanamento reciproco dei due; Valeria è riuscita lentamente ad entrare nella vita di Massimo, così come si era prefissata, il quale ora è divenuto lo spettatore dell’esistenza della ragazza: la segue, la spia dietro una vetrina di un bar, pur di poterla vedere per un solo istante e dirle che la ama.

Così succede, ma Valeria rifiuta davanti al desiderio avverato e scappa rifugiandosi di nuovo nel suo ruolo che la segnata così profondamente da non permetterle di dare una vera svolta alla sua vita, cosa che invece lei stessa è riuscita a fare per le esistenze di Massimo e Flavia.

Molto buona l’interpretazione di Barbora Bobulova e di Brigitte Catillon (grazie anche a Licia Maglietta che l’ha doppiata in italiano), un po’ meno soddisfacente Andrea Renzi che nelle sequenze iniziali sembra solo essere rigido e insensibile (anche quando gli muore il cane), migliora però verso il finale.

7/10


Molto bella la locandina che, se guardata attentamente, dà l’impressione di vedere un occhio il cui sguardo è rivolto alla nostra sinistra: il bavero del cappotto alzato e i capelli scostati dal viso isolano il chiaro del volto della Bobulova, lasciando la parte sinistra della fotografia completamente in ombra dando l’impressione del taglio di un occhio, la cui pupilla è rappresentata dal viso della Bobulova.