domenica 30 aprile 2006

"Tre metri sopra il cielo" di Luca Lucini (2005) | "Broken flowers" di Jim Jarmusch (2005) | "Ogni cosa è illuminata" di Liev Schreiber (2005)


Nemmeno la trasposizione cinematografica del libro omonimo ha saputo rendere (almeno) mediocre la storia narrata.
Se già nel libro gli avvenimenti raccontati avevano del paradossale, gli stessi, visti sullo schermo, risultano essere ancora più ridicoli; se poi il tutto finisce per essere una sorta di rifacimento di “Grease” (vedi: l’abbigliamento degli invitati alla festa di compleanno, la sequenza della gara in moto e l’impossibile storia d’amore tra una lei “perfettina” e beneducata e un lui burino con il giubbotto di pelle) dove l’unica cosa che manca è la brillantina, allora Lucini era proprio deciso a toccare il fondo.
Perché qualcosa di buono da scovare in quelle 300 e passa pagine c’era (ma poco però…); forse, pensando che la maggior parte del pubblico presente in sala sarebbe stata formata da ragazzini/e in preda al delirio, Lucini ha volutamente prodotto un film dagli scarsissimi contenuti e trovate stilistiche, perché tanto “loro non staranno certo a badare alle sottigliezze”.
Così sembra quasi di vedere un video-clip, con poche battute e montaggio veloce che a volte sembra saltare di palo in frasca tra una sequenza e l’altra, il tutto accompagnato da musica techno con il dee-jay che con voce fuori campo dispensa “pirle” di saggezza.
Va notato inoltre che, se prima non si è letto il libro, si fa fatica a capire alcuni passaggi.
Il film comunque contiene la scena di sesso più brutta che abbia mai visto, in cui, fra le tante cose abominevoli (tipo un paio di mutandoni della nonna), improvvisamente i due vengono ripresi da dietro un qualcosa di indefinito, forse un divano, oltre il quale si vedono solo le spalle di lui. Ma che inquadratura è?
Palma d’Oro al cagnetto Pepito, che ha preferito esonerarsi dal far brutte figure restando zitto e immobile, che tanto a farle, di figure, ci avrebbero pensato i suoi colleghi.

2/10


Mi avevano parlato molto bene di questo film, ma dopo i primi dieci minuti dall’inizio della proiezione mi stavo già addormentando, e sono riuscita ad arrivare alla fine con un solo occhio mezzo aperto e la stessa espressione di Bill Murray in locandina.
Broken flowers” è un film a episodi, tutti con la stessa struttura narrativa e accompagnati dalla stessa musichetta africana che, va bene sentirla una volta, ma alla terza già ti girano un po’ le palle.
Sarà l’apatia con cui il protagonista affronta la vita, sarà la routine che ha contaminato anche il regista durante le riprese, sarà che di battute comiche non ce ne sono, sarà… sarà… sarà che alla fine questo film non è né una commedia né un dramma. Che cos’è allora? Boh.
E’ indefinito e generico, non si ride, ma si sorride per le sfighe altrui e il più delle volte ci si ritrova un po’ alla sprovvista (in senso negativo, però) di fronte a scene che hanno dell’assurdo e del patetico (vedi rispettivamente: il nudo della ragazzina e la situazione famigliare dell’ex fidanzata senza figli).
Si salva solo il finale, quando Don/Bill Murray si toglie le fette di salame dagli occhi e capisce quello che noi spettatori avevamo già capito da venti minuti, e poi perché finalmente posso tornare a casa e dirti con tutto il cuore, caro Jim: ma va’, va’!

4/10

P. S.: se conoscete una veterinaria del tipo dell’ex fidanzata n. 2, mi fate un fischio? Così potrò imparare a parlare con la mia gatta.



L’iniziale comicità, che di solito non si addice a storie legate agli orrori della Seconda Guerra Mondiale, in questo caso è abilmente fusa a sequenze toccanti in cui ci viene ricordato di non dimenticare, ma lo fa senza scadere nella solita retorica.
Molto interessante la metafora della cecità: i tre protagonisti sono, chi meno e chi più, affetti da una “cecità” solo apparente che non gli permette di avere la giusta visione delle cose: Jonathan (interpretato da Elijah Wood) non si separa mai da quegli occhialoni da vista che solo una volta tolti gli mostreranno finalmente quello che stava cercando; il suo accompagnatore, Alex, continua a precisare per tutto il film di non essere ucraino ma di Odessa, per eliminare a priori quello che successe durante la guerra nei luoghi dov’è cresciuto; il nonno di Alex si trincera dietro una falsa cecità e occhiali dalle lenti scure (lo stesso Alex dirà a Jonathan: “Pensa di essere cieco…” battendosi il dito indice sulla tempia), ma questo non lo esonera da un malessere fisico e mentale scaturito da ricordi sempre più assillanti legati ad accadimenti vissuti in prima persona durante la guerra ma, come accade a Jonathan, nel momento in cui abbandona gli occhiali scuri, finalmente vede ed “ogni cosa sarà illuminata”.
Molto singolare la tecnica usata per alternare musica diegetica a quella extra-diegetica (le quali si fondono diventando un elemento unico), e le “trovate” sonore: il rumore vero e proprio degli spari, ad esempio, è sempre sostituito da quello dello scoppio di un tuono.
Un po’ forzata però la sequenza in cui la donna, che ha nelle sue mani la chiave di tutti i “misteri”, si rivela per quella che è facendo rimanere tutti a bocca aperta. Me compresa, ma perché come momento rivelatore è poco verosimile.
E’ un film che con la sua commistione di generi soddisferà tutti, anche per la notevole fotografia (da vedere la scena del campo di girasoli) e la colonna sonora alla Emir Kusturica.
Alto il livello di recitazione, compreso quello della cagnetta Sammy Devis Jr Jr.

8½/10

P. S.: da notare che Schreiber è alla sua prima regia, un esordio più che valido!

"Senza destino" di Lajos Koltai (2005) | "Texas" di Fausto Paravidino (2005)


Come si fa a dire se un film di questo genere è bello o brutto? Come si fa a giudicare la verità raccontata?
Non saprei proprio come commentare questo film, che sicuramente vale la pena di essere visto e di figurare insieme a tutte le altre opere analoghe (“Schindler’s List”, “La vita è bella”, “Il pianista”, ecc…).
La macchina da presa rigurgita immagini talmente crude e vere che ammetto, in non pochi casi, di aver volontariamente voltato la testa per non vedere; i colori si fanno sempre più lievi fino a scomparire e a ridursi in un gelido bianco e nero con l’allontanarsi della speranza nel protagonista; spesso le parole non escono dalla bocca dei personaggi, tanta è la disperazione raffigurata sulla pellicola a bastare da sé senza spiegazioni; la colonna sonora composta da Ennio Morricone ricorda troppo spesso le melodie dei western di Sergio Leone, ma si può anche chiudere un occhio, perché è pur sempre MORRICONE.
Il finale forse è un po’ troppo affrettato, sarebbe stato interessante seguire non solo il ritorno in patria del protagonista, ma anche la riappropriazione della sua libertà contro le ostilità di chi cerca di cancellare le atrocità accadute.
Resta comunque un finale duro dal quale emerge la certezza di non aver ancora finito di soffrire, nonostante si sia varcata la soglia di casa dopo aver sopportato l’inverosimile.

7½/10


Con non poche perplessità, nel seguire le vicende di un gruppo di ragazzi piemontesi, la storia parte dalla fine per ritornare in modo circolare alla stessa sequenza iniziale dopo un lungo flash-back, attraverso il quale si ricompone tutta la storia.
A causa di questa struttura al rovescio, inizialmente si fatica un po’ a seguire tutti gli episodi, ma una volta capito il ritmo si va via lisci come l’olio.
Nel raccontare la vita di questi ragazzi, prendendo spunto solo da alcuni stralci della loro vita (il sabato sera in compagnia, al lavoro, il rientro a casa dai genitori, ecc…), emerge il disagio in cui inconsciamente ognuno di loro vive in un non ben identificato paesino piemontese, qui paragonato al Texas per la sconfinata desolazione del territorio.
Spesso mi sono identificata con i personaggi, ritrovando sullo schermo una parte del periodo in bilico tra i venti e i trent’anni che sto affrontando adesso, però il regista in alcuni casi carica un po’ troppo di drammaticità e cinismo la vicenda: poco oltre la metà del film ogni personaggio rivela la sua indole menefreghista e il finale è la summa di tutti questi sentimenti, dove si sprecano risse, ubriacature, violenze sessuali, tentati omicidi e crisi isteriche.
L’amicizia ne esce alquanto malconcia, e ho come l’impressione che nemmeno il regista ci credi molto in questo sentimento fraterno, dato che ogni personaggio, chi più chi meno, contribuisce a distruggere il gruppo che si era creato ai tempi della scuola.
“Ognuno pensa per sé”, sembra dire Paravidino, anche se gli ultimi secondi del finale gettano un po’ di serenità sul futuro dei ragazzi protagonisti.
Curioso come il passato da regista teatrale di Paravidino, emerga da sequenze in cui i personaggi sembrano recitare, più che davanti ad una macchina da presa, sul palco di un teatro, effetto accentuato dalla costruzione delle scene come dei piani sequenza.
Si fa anche sentire però un’impronta giovanile sulla struttura del film, come la presentazione dei personaggi (in cui ci scappa anche una citazione alla storica copertina che accompagna il volume “Antologia di Spoon River”) veloce e comica, e la voce fuori campo di uno dei protagonisti che sottolinea l’ottica “immatura” attraverso la quale viene vista tutta la vicenda.
Sicuramente è un buon film, visto anche che il regista è al suo esordio cinematografico, ma dissento per l’ultima volta sull’idea che dei giovani traspare da questo film: sembra che non sappiamo divertirci se non grazie all’alcol, la droga e ai gesti estremi.
E Paravidino ha solo trent’anni.
Mi aspettavo una visione del genere da chi la gioventù l’ha già passata da un pezzo.

7½/10

venerdì 28 aprile 2006

"Qualcuno da amare" di Barbara Pym


Barbara Pym impiegò più di quindici anni per scrivere questo romanzo con il quale esordì nel 1950.
Quindici anni per produrre un romanzo sentimentale in cui si sprecano citazioni coltissime a sottolineare l’altisssssima estrazione sociale dei personaggi, insulse dichiarazioni d’amore nei confronti di due zitellone snob della media borghesia inglese, disquisizioni sulle tribù indigene africane che c’azzeccano con la trama come i cavoli a merenda, interminabili pagine in cui non succede assolutamente nulla se non un banale raffreddore ai danni di una delle due zitellone protagoniste e per il quale si mobilita mezzo paese (manco avesse preso la gonorrea!).
Basta aprire il libro e seguire a caso le monotone vicende delle due inglesone, per capire che ci si trova davanti ad un’opera letteraria di dubbio valore.
E poi ci si chiede come mai l’autrice passò inosservata e sottovalutata per quasi trent’anni…

5/10

P. S.: il titolo originale dell’opera è “Una mite gazzella” (a citazione di una poesia a cui spesso si fa riferimento).
Ecco, se la vedete in giro, abbattetela!

martedì 25 aprile 2006

"Tristano & Isotta" di Kevin Reynolds (2005) | "Il sole" di Aleksandr Sokurov (2005)


Premetto che non conosco la vera storia di Tristano e Isotta ma a questo punto, per le leggi del business, finirò per leggere anch’io la versione più attendibile della leggenda.
Nel rifacimento di Reynolds, Tristano risulta essere un cavaliere molle senza carisma (guardatelo lì nella locandina, con quello sguardo da triglia), e Isotta una giovane furba che dopo i primi tentennamenti e rimorsi finisce per dividersi tra due uomini.
Tutto quell’amore eterno di cui si è parlato nello sponsorizzare il film (paragonando anche i due protagonisti a Romeo e Giulietta), io non l’ho trovato nel corso della storia; non ci sono grandi esternazioni di sentimenti, a parte le classiche scene di sesso, né dialoghi plateali in cui si nota davvero l’amore che i due provano l’un l’altra. Ritorna spesso, è vero, il brano di una poesia letta da Isotta a Tristano, ma non è che per dichiarare amore all’amato ci si deve sempre basare sulle solite quattro paroline ad effetto scritte da altri! Voglio pathos, sentimento, musica enfatica che accompagna questo amore impossibile che sfida le leggi!
E invece?
Nulla.
Passione tirata per i capelli; caratterizzazione dei personaggi quasi inesistente, per la quale sembrano essere meglio sviluppati i personaggi secondari che non i due protagonisti che dovrebbero sostenere tutto il peso del film; dialoghi ridicoli e scarsi (non solo quelli tra Tristano e Isotta, ma anche quelli dell’intero film); bruttissima fotografia che si salva solo nelle grandi riprese panoramiche dove lo sforzo maggiore è fatto però dai bellissimi paesaggi, per il resto, quando la macchina da presa è ristretta tra quattro mura, fa pena; svolgimento dell’intreccio poco credibile e che salta di palo in frasca: ad esempio Tristano se ne va dall’Irlanda in barca e nella scena successiva è a cavallo, mi sono persa qualcosa…? e nessuno che gli chiede “Ma come cazzo hai fatto??? Eri morto!”; la colonna sonora è monofonica e ripetitiva, non ha nemmeno un picco di enfasi nelle scene in cui è da sottolineare la passione carnale tra i due, e poi dov’è finito Gavin DeGraw che doveva cantare “We belong together”? Non segue neanche i titoli di coda, che invece sono occupati dalla solita musichetta che accompagna le scene di ballo, di battaglia, di sesso, di litigi, di meditazione e se in una Tristano si stava tagliando le unghie dei piedi, state certi che c’avrebbero messo ancora quella.
Scarse anche le scene di battaglia, ci son sempre quattro soldati messi in croce in campo, e nel momento clou le battaglie vengono sempre tagliate: una su tutte, quella iniziale dove gli irlandesi hanno appena iniziato a distruggere il villaggio e nella successiva - puf! - hanno già finito. Dov’è la soluzione di continuità? Mi sono persa anche qui qualcosa?
La sequenza del torneo, dove sarebbe stato interessante vedere come Reynolds ha risolto i combattimenti corpo a corpo, è basata in tutto e per tutto sulle fin troppo fittizie lotte tra wrestlers, e se il mio fedele accompagnatore sudava e tifava per Tristano, a me sembrava di vedere il telefilm “Xena”.
Nemmeno passabile il finale: Reynolds avrebbe potuto spendere ancora qualche minuto in più, che tanto dopo due ore di film, minuto più minuto meno, non fa differenza, e invece abbandona i due in riva al fiume e chiude il tutto con un breve riassunto.
Mah, il vizio dei riassunti già l’aveva all’epoca di “Montecristo” in cui aveva ridotto a costo di strafalcioni e imprecisioni il bellissimo romanzo di Dumas; non è quindi cambiato e continua a focalizzare l’attenzione su particolari della storia che possono essere trascurati e a non badare a quelli più importanti, ritrovandosi così al finale con pochi striminziti minuti di pellicola.
Tristano & Isotta” quindi è quello che è: un filmetto (ma poi che è quella “&”???).

5/10

P. S.: e poi, scusate… quando Tristano viene trovato in riva alla spiaggia, per chi ha visto il film, dovrebbe sembrargli strano che il suddetto figliolo ha ancora tutti i capelli in testa. Per la legge dell’autocombustione gli si sarebbero dovuti bruciare tutti!
Preferisco non commentare invece la scena del “riscaldamento corporeo”…


Potrei ricopiare quanto avevo scritto tempo fa per “Arca Russa”, tanto i film di Sokurov risultano essere sempre noiosi e con una struttura da “encefalogramma piatto”, nonostante le geniali trovate stilistiche.
Il sole del titolo è l’imperatore giapponese Hirohito, indi per cui per due ore e mezza, di sole, quello vero, non v’è traccia; il tutto sottolinea l’importanza che l’imperatore giapponese aveva in quel dato periodo.
Non essendoci il globo dorato ad illuminare la vita dei personaggi sulla pellicola, e dato che ne possono fare a meno grazie alla presenza dell’imperatore, essi vivono apparentemente senza angoscia in un bunker sotterraneo nell’attesa dell’arrivo degli americani (ci troviamo durante gli ultimi mesi del conflitto mondiale), e sottoterra trascorrono giornate tutte uguali rischiarate solamente da misere lampadine che gettano una luce ancora più lugubre sui tic di cui è affetto l’imperatore.
E’ quindi sotto il segno della monotonia che si svolge tutta la pellicola, durante la quale anche gli avvenimenti più singolari (l’imperatore che si lascia fotografare dagli americani; l’incontro tra Hirohito e McArthur, ad esempio) scivolano via fra la quasi indifferenza.
L’unica sequenza che mi ha davvero impressionata è quella onirica, in cui Hirohito vede trasformarsi gli aerei che sganciano bombe sul suo paese in mostri simili a pesci destinati ad uccidersi l’un l’altro. Vale davvero la pena di essere vista.
Per il resto della pellicola la macchina da presa indugia insistentemente su particolari noiosi della vita dell’imperatore, ma che sottolineano l’aspetto umano di un uomo da sempre ritenuto un dio, e come in “Ottobre” di Ejzenstejn il soffermarsi sui piedi di Hirohito e dei suoi supposti che salgono le scale ne determina l’ascesa, ma con significato contrario dato che l’imperatore finirà per abbandonare la sua carica e scappare via mano nella mano con sua moglie come se fosse un ragazzino.
Il sole è tramontato e il film finisce.
La prossima volta mi porto un bel bigino di storia giapponese.

6½/10

venerdì 21 aprile 2006

"Lady Henderson presenta" - Stephen Frears | "Provincia meccanica" - Stefano Mordini | "Joyeux Noël" - Christian Carion

Esiste l’arte di “fare i titoli di testa”? A parte Hitchcock e Leone non mi vengono in mente altri registi che hanno sempre creato i titoli di testa dei loro film in stretto collegamento con la storia narrata.
Ma d’ora in poi aggiungerò alla scarna lista anche Stephen Frears, che per il suo ultimo film presenta ogni attore, in ordine di apparizione, con dei deliziosi siparietti animati dal gusto retrò, in cui non mancano nemmeno i classici putti svolazzanti.
In questo modo il film inizia con molti punti a suo favore, e ne acquista sempre di più grazie all’alto livello di recitazione - beh, è ovvio… basta il solo nome di Judi Dench per risollevare anche il film più scadente! - e al classico humor inglese, sottolineato anche dai battibecchi bisbetici tra Lady Henderson (Judi Dench) e Vivian Van Damm (Bob Hoskins).
Ma l’atmosfera da commedia scema dalla metà del film in poi, per assumere toni più cupi e melodrammatici (e anche patetici, direi) nel momento in cui la guerra si inserisce bruscamente nelle vite dei protagonisti.
Nell’ultima metà del film, infatti, oltre ai soliti discorsi patriottici “mi-piego-ma-non-mi-spezzo”, nasce la classica storia d’ammmore fra la bella attricetta e il soldatino, e quindi VIA con la carrellata di scene melense in cui i fidanzatini corrono mano nella mano nell’uggiosità inglese o si sbaciucchiano contro un muro.
Che noia.
Non so quanto di vero e quanto di romanzato ci sia nel film, dato che la storia è ispirata ad un fatto realmente accaduto, ma se Lady Henderson ha pronunciato sul serio quel discorso finale davanti alle truppe inglesi, beh… mi sembra un po’ ridicolo.
“Ho aperto questo teatro per permettere a tutti i soldati, nell’eventualità di cadere sul fronte, di morire almeno con negli occhi il ricordo di un bel paio di tette nude”.
Queste, più o meno, le parole dette dalla Lady (sì, le ho un pochino modificate, ma il succo era quello), alle quali i soldati esultano con la bava alla bocca. Sinceramente l’ho trovato un discorso ridicolo, come ho già detto più sopra.
Restano comunque la piacevole struttura base tipo musical, con le canzoni e i balletti a tema; l’ottima colonna sonora; la già citata bravura attoriale e il messaggio finale che ci sprona a continuare a vivere e a reagire, per affrontare nel modo giusto le disgrazie che la vita ci riserva.

6½/10

Ogni tanto si deve anche dare spazio al cinema italiano fra le nostre visioni cinematografiche, e questa volta per me è capitato questo film, passato piuttosto inosservato l’anno scorso.
La storia narrata, che ha come protagonista una famigliola in-felice abitante in una provincia qualsiasi d’Italia, racchiude in sé tutti i mali di vivere che una società moderna può infliggere ai malcapitati di turno, “colpevoli” di voler vivere un po’ sopra le righe.
Ma credo che la narrazione sia alquanto falsata: Silvia (Valentina Cervi) e Marco (Stefano Accorsi), a ben vedere, non vivono con spirito di alienazione nella loro provincia meccanica ma, piuttosto, vivono in totale immaturità ogni aspetto della vita coniugale e di crescita dei figli. Questi ultimi in particolar modo vengono cresciuti in modo assurdo: la primogenita, che ha circa dieci anni, è vessata psicologicamente da una madre totalmente incapace di distinguere quale sia, dei due figli, quello che ha realmente bisogno di affetto materno e protezione, tanto che il secondogenito, di appena tre anni, è indipendente e fa tutto da sé (citando le parole che in una scena Marco pronuncia riguardo al figlio).
Silvia, oltre ad avere una concezione piuttosto bizzarra della maternità, vive in “un mondo tutto suo”, non bada alla vita domestica e pensa solo ad allegre scorribande con il giovane marito in capo al mondo, piazzando i figli un po’ qua e un po’ là, togliendoseli di mezzo.
Marco, durante le scene che non lo ritraggono al lavoro (dove tra l’altro capisce sempre il contrario di quello che gli viene detto dal capo), è sempre chiuso in casa a vegetare sul divano e a giocare a “Tomb Raider”.
Questo dimostra come non ci si trovi di fronte a due adulti che cercano di estraniarsi dalla società, in cerca di una loro dimensione che meglio rispecchi la loro concezione di vita, ma ci troviamo piuttosto davanti a due adulti immaturi che, oltre a non capire i figli, non capiscono nemmeno la persona che hanno sposato e con la quale hanno deciso di vivere insieme per sempre.
Le vicende di questa famiglia finiscono per inzuppare tutta la pellicola di angoscia, una sensazione che prevale essa stessa nella vita di Marco e Silvia, sentimento causato dalle disastrose vicissitudini che sono costretti (anche per causa loro) a subire.
Un po’ di speranza e felicità la si intravede solo nel finale, finale che scade però nel ridicolo dove vediamo Marco correre durante una corsa campestre, la quale simboleggia la solita e abusata metafora del dirigersi verso un futuro migliore.
La recitazione non è ai livelli della colonna sonora, nella quale figurano anche i bravissimi Mogwai; la bravura di Stefano Accorsi ormai è stazionaria sul mediocre, Valentina Cervi invece, mah… che dire… quel paio di persiane erano più espressive.
Ad ogni modo la Cervi non mi sembra abbia una parte da protagonista, dato che il suo personaggio, in relazione alle battute pronunciate e alle scene in cui appare, l’ho trovato piuttosto secondario.
Il buon senso mi dice di sorvolare sull’episodio del mago con poteri occulti, altrimenti il mio voto potrebbe precipitare ancora più giù.
Non è però un film noioso, penso di rivederlo prima o poi, chissà che magari la mia valutazione non salga di qualche punto.

6/10

Potrebbe sembrare l’ennesimo film di guerra dove il regista di turno, in base alle sue origini, cerca subdolamente di far notare allo spettatore chi siano i colpevoli e chi gli innocenti della storia da lui raccontata.
In questo caso però non si colpevolizza nessuno, non c’è vittimismo né rancore verso le truppe avversarie; le tre nazioni protagoniste del fatto di cronaca raccontato (Francia, Germania e Scozia) finiscono per guardare la guerra in corso dallo stesso lato della trincea, e anche i più invasati cambiano idea sull’utilità di quella carneficina.
La vera storia raccontata, molto commovente, è però contaminata dalla solita e inutile storia d’amore, che ovviamente prevede l’inserimento di un personaggio femminile: la cantante lirica Anna, un misto tra Marilyn Monroe e Cappuccetto Rosso, che spacca i timpani alle truppe in trincea (domanda: ma le cantanti di quel genere non dovrebbero essere abbastanza formose? mi sembra poco credibile l’attrice scelta), fidanzata di uno dei soldati tedeschi che ha avuto la bellissima idea di portarsela dietro dopo la licenza “per allietare le terribili ore dei commilitoni”. Cosa deve allietare, caro?
La conferma che le donne dovrebbero stare al loro posto la si ha quando la cretina Anna, invece di tornarsene a casa, decide di farsi arrestare con il fidanzato perché “non sa stare senza di lui”.
Ma perché un film così interessante, ben diretto e recitato, deve essere rovinato da un personaggio così cretino e superfluo?
L’amicizia che i soldati instaurano con i loro rivali durante la vigilia del Natale 1914, poteva bastare a elevare la pellicola a documento di storica importanza, dato che di questo fatto realmente accaduto si sa poco o nulla; ma il sentimentalismo ha finito per rovinare anche il messaggio del film riducendolo a semplice americanata.
Mischiare la finzione con la realtà non è sempre la cosa migliore da fare, purtroppo…
Pessimo il doppiaggio italiano: la storia ruota attorno a tre diverse nazioni, tre lingue straniere che vengono storpiate in un’unica, l’italiano, che rovina anche il senso di alcuni dialoghi, soprattutto quelli centrali dove i soldati rivali si scambiano i primi segni di fratellanza. Sarebbe stato più utile e sensato mantenere la versione originale con i sottotitoli in italiano, così come è stato fatto per i primi cinque minuti in cui vediamo tre bambini, appartenenti alle tre diverse nazioni, decantare l’odio verso i nemici.
Resta quel poco di vero e reale che è il messaggio del film, in cui si sottolinea l’importanza dell’umanità anche in situazioni in cui, in tempi di oppressione, si cerca di rispondere con l’odio a chi ci viene indicato come nemico.

7/10

mercoledì 19 aprile 2006

"Brad Barron" n. 12

Al contrario di quanto ho scritto riguardo al numero 11, “I senza legge” mi ha davvero appassionata e sono rimasta molto soddisfatta una volta terminato e sistemato l’albo sulla mensolina a lui destinata (a proposito: il faccione di Brad Barron sta cominciando a prendere sempre più forma sul dorso degli albi).
Forse grazie alla momentanea scomparsa degli alieni dalle pagine (vengono solo nominati di sfuggita), la storia ha acquistato dei vantaggi.
Sto forse dicendo che tutti ‘sti alieni avevano un po’ stufato? Mi sa di sì.
Anche perché, come dicevo riguardo al precedente numero, la trama stava diventando sempre più ripetitiva.
In questa nuova avventura Brad deve vedersela con i suoi simili, un gruppo di fuori legge più malvagio e astuto dei Morb, e grazie a queste “inusuali” caratteristiche l’albo risulta essere ricco di colpi di scena e non sa di “già visto”.
Ma ci sono purtroppo degli aspetti che riducono un poco la mia soddisfazione (di nuovo!): in questa corsa contro il tempo, contro gli alieni, contro tutto, a causa anche di un mio ammissibile calo di memoria (e di interesse) mi ero dimenticata il vero motivo che spinge a questa perenne fuga il nostro eroe; anche perché dopo essersi recato a Philadelphia, dove presumibilmente avrebbe trovato ciò che stava cercando, e che non c’era, Brad ha ripreso il suo errare. Ma per andare dove, ancora? Per trovare un posto in cui non essere trovato dai Morb? Per… per… per fare COSA??? Ma ecco che a pagina 43 viene svelato l’arcano. Grazie, Brad.
Però io mi chiedo: Brad continua a vagolare nel buio, solo e disperato, la sua famiglia è scomparsa nel nulla, incontra gente dei più svariati tipi che ha avuto l’onore di conoscere quindici anni prima e mai più rivisti. Non vi sembra strano che in tutta ‘sta gente non c’è MAI una volta che ritrovi i suoi benedetti famigliari?
Un’altra caratteristica che trovo noiosa è il continuo ripetere le origini di Brad Barron in veste di biologo marino.
La bella e suggestiva sequenza in apnea del protagonista di pag. 81-83, è così rovinata dall’aria saccente con cui Brad fa notare “il biologo che è ancora in lui”. Uff!!!
Ma da pagina 84 a pagina 91, i disegni di Anna Lazzarini (decisamente la mia preferita) danno un tocco oscuro, quasi dark, alla storia, rendendola ancora più inquietante.
E l’ultima pagina mi ha strappato anche qualche sorriso, in quella palese presa in giro del genere western che era quello scelto per questa avventura.

domenica 16 aprile 2006

"Brad Barron" n. 11



Ogni volta che inizio a leggere un nuovo numero di “Brad Barron”, spero di trovarci quel colpo di scena determinante per la storia e che avvii così la saga verso il finale, e invece anche questa volta non c’è stato.
La nuova avventura di Brad Barron si riconferma essere ripetitiva come le precedenti (escludendo quelle contenute nei primi cinque numeri); mi ha dato ancora l’impressione di assistere agli inseguimenti tra Willy il Coyote e Beep Beep: divertente (per Brad direi “piacevole”, dato che da ridere c’è poco per il tono su cui si basa), ma si sa già chi dei due avrà la meglio.
I Morb quindi si riconfermano tonti e, dopo quasi un anno di inseguimenti ferrei, Brad è riuscito a seminare le sue tracce uscendo vivo dalle solite sparatorie contro le forze aliene.
In questo albo, oltre ai Morb, compare anche un altro tipo di alieni, quello classico con gli occhi allungati, che stranamente si rivela essere ancora più spietato dei Morb stessi (ma non abbastanza).
Urge una spiegazione: ho notato che ogni forma extra-terrestre che intreccia la sua storia con quella di Brad, è presentata come cinica, diabolica e con seri obiettivi di sterminio ai danni degli umani. Perché? La saga di "Brad Barron" si basa proprio sul genere fantascientifico, ma nonostante spesso gli alieni vengano visti con occhio benevolo, nel fumetto di Tito Faraci non se ne salva nessuno e addirittura vengono bollati come miseramente inferiori al genere umano - vince sempre Brad - quasi ad escludere l’esistenza di una forma di vita almeno un tantino più sviluppata di noi.
Visione molto patriottica quella di Tito Faraci (questa frase è da intendere comunque in senso lato, dato che “Brad Barron” e ambientato in America).
Continua lo sviluppo della sottotrama, che ha il compito di chiarire molti aspetti della vita del protagonista e farlo conoscere meglio ai lettori, e anche lì Brad “ci fa un baffo” a tutti, e ovviamente quello che ne esce più malconcio è il suo amico di vecchia data qui presentato per la prima volta.
Giovanni Bruzzo è il disegnatore di questo albo, ma (insieme a Giancarlo Caracuzzo che aveva disegnato gli albi 3 e 9) è quello che apprezzo davvero scarsamente, anche perché nelle sue vignette gli oggetti appaiono e scompaiono a suo piacimento (ad esempio a pagina 21 nell’ultima vignetta in basso a destra, la lampada sul tavolo, ben visibile nelle altre pagine, è sparita).
Giudico invece migliori i disegni di Anna Lazzarini e Bruno Brindisi (tanto per avere un termine di paragone).
Un applauso va però al finale a sorpresa, sia per i disegni (che si salvano solo nel finale però, in particolar modo le prime due vignette di pagina 98) che per lo sviluppo conclusivo della mini-storia.

sabato 8 aprile 2006

"Ultimi raggi di luna - Collection" n. 1 di Ai Yazawa

L’atmosfera cupa e misteriosa segna quest’opera della Yazawa, dove non ci sono né la felicità sui volti dei protagonisti né i soliti cuoricini, fiorellini e quant’altro.
Forse è proprio per questo che “Ultimi raggi di luna” mi ha colpito più delle altre opere di questa autrice, in cui la parte fondamentale era (è) giocata sulla comicità.
Questo manga è la dimostrazione che la Yazawa sa essere seria e soprattutto chiara durante la narrazione, dato che ultimamente i dialoghi da lei scritti in “Nana” (la sua opera più recente e non ancora terminata) sono ai limiti dell’incomprensibile.
In “Ultimi raggi di luna” i protagonisti non sono i teen-ager usuali, ma quattro bambini che frequentano la quinta elementare; quindi niente automobili tamarre, niente concerti rock, niente sfilate di moda, niente rapporti sessuali alla De Sade, niente gravidanze improvvise, ecc… Tutto questo è sostituito dalla figura di una misteriosa ragazza legata al soprannaturale.
Il cambio di tono non ha però influito sulla bravura artistica della Yazawa, i cui disegni sono come sempre particolareggiati e davvero belli; ma anche in questo caso a volte si ritorna alle solite vignette in cui si fanno battute spassosissime (???) o freddure, con conseguenti “goccioline” disegnate sulle tempie dei personaggi (chi legge manga avrà capito a cosa mi riferisco), decisamente fuori luogo per il tema trattato dato che si parla anche di droga.
Ad ogni modo mi ha fatto una buona impressione, staremo a vedere nei prossimi e ultimi due numeri della serie se il tutto verrà riconfermato.

giovedì 6 aprile 2006

"Hanayori Dango" n. 44-45 di Yoko Kamio



La Kamio continua imperterrita a infierire sulla relazione tra Tsukushi e Domyoji.
Già non bastava il tentato omicidio ai danni di Domyoji, e no! ci voleva anche la perdita di memoria con conseguente disperazione di tutti i protagonisti.
Hanayori Dango” è uno tra i manga che preferisco, lo seguo fin dal primo numero pubblicato nel 2002; la realtà surreale che la Kamio ha creato sulla carta credo sia perfetta in tutte le sue sfaccettature, nelle quali l’irreale comico è ben proporzionato con pagine nelle quali concetti come l’amore, l’amicizia e la crescita interiore (tanto per citarne alcuni) sono esposti e analizzati senza scadere nel patetico (cosa che la Yazawa non è proprio capace di fare!).
Ma, mi spiace dirlo, stavolta la Kamio c’ha un po’ troppo calcato la mano: l’episodio della perdita di memoria di Domyoji l’ho trovato superfluo. A cosa è servito? Credo solamente ad allungare la storia di un numero, dato che già si sapeva quali sentimenti profondi Domyoji provi per Tsukushi.
L’unico lato positivo è stato però l’introduzione di un nuovo personaggio femminile (Umi), che ha portato all’analisi di un altro aspetto umano che ha coinvolto anche tutti gli altri personaggi.
A tre numeri dalla fine molte cose sono ancora in sospeso, e a quanto pare Yuki sta per essere ancora presa per il culo da Sojiro. Spero si svegli in tempo.
E chissà in quale luogo Domyoji ha portato Tsukushi…?

martedì 4 aprile 2006

"Demetrio Pianelli" di Emilio De Marchi | "America primo amore" di Mario Soldati

Pubblicato a puntate per la prima volta nel 1890 su “L’Italia”, questo feuilleton segue per molti aspetti lo stile di Charles Dickens: ad ogni personaggio è collegato un nome adeguato che richiama le sue caratteristiche fisiche o caratteriali più predominanti; la sottile ironia a volte cinica e fredda; il sensazionalismo drammatico. Elementi, perciò, tipici dei romanzi d’appendice di gran voga in quegli anni.
Ma a dispetto della letteratura dickensiana, che leggo avidamente da molto tempo (e che, ahimè, prima o poi finirà…), il “Demetrio Pianelli” è troppo incentrato sul patetico, il melodrammatico; troppe le scene in cui si nota una costruzione “a tavolino” del testo, mirata a far cadere la lacrimuccia al lettore.
Questa spiacevole caratteristica la si ritrova soprattutto nei personaggi: Arabella simbolo del candore virginale; il cagnetto di famiglia sempre lì ad uggiolare, ma che tanto non se lo fila nessuno se non verso la fine; il povero Demetrio votato alla fatica e ad una vita quasi monastica; la bella vedova un po’ scema che, sopraffatta dagli eventi, “rinsavisce”; ecc…
Non per questo però è un’opera “scarsa”, perché vi si trovano una narrazione scorrevole, che non risente degli anni passati da quel 1890; un’indagine psicologica dei personaggi molto approfondita, in cui si può notare la crescita interiore degli stessi nel corso degli accadimenti; una trama godibile e coinvolgente e la già citata ironia che accompagna la narrazione fino alle ultime pagine, persino nei momenti più drammatici.
Inoltre il romanzo è ambientato a Milano, quindi un motivo in più per scoprire direttamente com’era la città sul finire dell’Ottocento.
Un’altra scusa per leggere questo libro è l’abominevole uso di metafore: ce ne sono di tutti i tipi, divertenti, sagaci, mistico-religiose, e chi più ne ha più ne metta; è davvero un aspetto singolare e interessante, quest‘ultimo, che mi ha colpito molto e che valutato singolarmente può valere da solo la lettura del libro.

8/10

P. S.: consigliato a chi ormai odiaI promessi sposi”.


Ho faticato non poco a superare le prime quaranta pagine, ma ero già al secondo tentativo e non potevo più rimandare, dato che il libro è materia d’esame di un corso che ho frequentato all’Università.
Il romanzo è suddiviso in parti, “Arrivi” è la più micidiale in tutti i sensi (leggi: soporifera); ma dalla seconda parte, la narrazione diviene più coinvolgente, grazie anche all’alternarsi di episodi semi-autobiografici - alcuni divertenti - a brani in cui le elucubrazioni forbite di Soldati prendono mortalmente il sopravvento.
Curioso come la solitudine dell’io narrante trapeli spesso dal racconto, nonostante le svariate relazioni sentimental-sessuali che il protagonista intrattiene con fanciulle del posto durante il suo soggiorno americano, e durane le quali sfugge anche un’allusione ad un interesse per il sesso maschile.
Sebbene il romanzo contenga alcuni racconti davvero interessanti (come “Professori americani”), mi azzardo a dire che tuttavia Soldati a mio parere è un autore sopravvalutato; non ho trovato in “America primo amore”, ad eccezione di un paio di racconti, nulla che possa far pensare di avere fra le mani uno dei capolavori della letteratura novecentesca.

5/10

sabato 1 aprile 2006

"V per vendetta" di James McTeigue (2005)


Premetto che non ho mai letto il fumetto da cui questo film è stato tratto, quindi non so se il regista sia rimasto fedele all’originale oppure no.
Il film comunque è un magma di generi e citazioni che spaziano dal cinema alla letteratura, dalla politica ai fatti di cronaca odierni: “Il Conte di Montecristo” di Alexandre Dumas, “Il fantasma dell’opera” di Gaston Le Roux, Zorro (Z = Zorro, V = Vendetta), il Cavaliere Mascherato, “Fahrenheit 451” di Ray Bradbury, “1984” di George Orwell, tutti i libri di Philip K. Dick, gli incappucciati di Abu Ghraib, persecuzioni nazi-fasciste, “La bella e la bestia”, i preti pedofili, “Mission: Impossible” con Tom Cruse, eccetera, eccetera…
A causa di tutti questi scopiazzamenti e citazioni, la linearità della trama diviene un po’ carente in alcuni punti, e mi chiedo chi fosse il tizio con gli occhiali che ha il compito di rapare a zero Evey, dato che poi si scopre che…nel “carcere” c’erano solo lei e V.
E ne risente anche la fotografia, troppo legata al genere fumettistico, al punto che sembra di vedere quei video-clip dove si passa alternativamente dal girato classico all’animazione.
Vorrei anche spendere qualche parola sul tema trattato, dal quale deduco che un popolo oppresso, avendo a disposizione miriadi di stratagemmi per ottenere l’agognata libertà - come la storia insegna - non andrà però troppo per il sottile, scegliendo così di piazzare un ordigno da una tonnellata di tritolo che, una volta esploso, ci delizierà anche con i suoi meravigliosi fuochi d’artificio.
Era proprio necessario? Questo non credo sia l’unico modo per ottenere la libertà vendicandosi!
I dialoghi in alcune sequenze sono davvero ridicoli e incomprensibili (“Una vendetta senza un ballo non è una vendetta!”, mmmh…prego?).
E la subdola pubblicità alla LG?
Inoltre sembra che ormai nella cinematografia odierna, un film non è ritenuto degno di esserlo se non ci si infila anche la solita storia d’amore. Ma il problema non sarebbe sorto se il discepolo non fosse stato di sesso opposto a quello del suo mentore, e in quel momento ho avuto una raccapricciante e inspiegabile visione: Edmond Dantès che amoreggia con l’abate Faria.
Brrr…

6½/10