mercoledì 10 settembre 2008

Libri con la pallosite acuta

Sono tornata da quasi due settimane dalla Valle d’Aosta [le foto, per chi fosse interessato, stanno arrivando], vogliamo subito passare a parlare degli ultimi libri letti?

Uno più brutto dell’altro. Eccoveli in ordine sparso (di bruttezza):

Comincerei con “Liberazione” di Sándor Márai [Adelphi, 16.50 €, regalo!] che, sfogliatolo il libreria mi aveva affascinata in maniera esagerata per un incipit che reputerei fra i più belli finora letti:

La diciottesima notte dopo capodanno - il ventiquattresimo giorno dell'assedio di Budapest -, una giovane donna decise di abbandonare il rifugio in un grande edificio accerchiato nel cuore della città, di attraversare la strada trasformata in campo di battaglia e di raggiungere, in ogni modo e a qualsiasi costo, l'uomo che quattro settimane prima era stato murato, insieme a cinque compagni, in un angusto scantinato dell'edificio di fronte. Quell'uomo era sua padre (...)”.

Purtroppo le 161 pagine successive proseguono per concetti ripetuti più e più volte con le stesse parole e che vanno a formare sostanzialmente più un’analisi quasi saggistica alquanto noiosa della condizione psicologica dei prigionieri, delle vittime di guerra e dei carnefici stessi, che un romanzo storico basato sul racconto di due vite tra le tante trovatesi a sopravvivere fra brutalità disumane.

Leggerlo è stato, anche se veloce per la brevità del testo, più una forzatura che un piacere: non volevo lasciarlo a metà e già solo l’accenno a quel padre murato vivo mi aveva invogliato a terminare la lettura, non foss’altro per sapere almeno se fosse sopravvissuto o meno.

E con sorpresa sono stata ripagata dalle ultime venti-venticinque pagine in cui tutta la scarsità d’azione e la monotonia precedente vengono sostituite da un colpo di scena che ormai non mi aspettavo più.

Tuttavia non credo “Liberazione” sia un bel libro, anche se scritto molto bene e con profonda lucidità per dei fatti narrati quasi in presa diretta (Márai terminò il romanzo nell’estate del 1945), e anche a distanza di alcune settimane dal termine della lettura non trovo altre parole diverse da “noioso/poco stimolante” per definirlo.

A questo punto non credo leggerò altri libri dell’autore.

Il fine settimana appena trascorso mi ha vista invece tutta intrippata iniziare a leggereLa solitudine dei numeri primi” di Paolo Giordano [Mondadori, 18 €, me l’hanno prestato]. Osannato dalla critica che gli ha fatto vincere il Premio Strega 2008, deriso invece da una parte dei lettori è la storia incrociata di due persone sole dall’infanzia all’età adulta, fino a quando non si incontrano per caso ma siccome sono come due numeri primi che non si trovano mai vicini l’uno all’altro finiscono a essere come le rette che non si incontrano mai quando sono parallele, come i binari del treno e come probabilmente il mio interesse per Paolo Giordano, cioè nullo, ché il libro è partito gasatissimo con una prima parte bellissima ma poi si è perso verso le cagate da letteratura per adolescenti con lui che si picchia da solo perché e depresso e lei che non mangia perché è depressa e così tutti sono depressi. Insomma, che due palle. E per fortuna che me l’hanno prestato.

Altro libro e altra noia assicurata è “Vita” di Melania G. Mazzucco [Libri Oro, Rizzoli, 6 €, anche questo imprestatomi] letto per la Sfida delle donne autrici e che, guarda caso!, pure lui ha vinto il Premio Strega nel 2003. Sarò forse allergica ai libri che vincono quel concorso??? E’ un tentativo mal riuscito di biografia famigliare: la Mazzucco, basandosi sui racconti del padre, ha intrapreso un lungo percorso di ricerca e documentazione da cui è saltato fuori questo libro, appunto. Peccato che l’autrice abbia ritenuto opportuno intervallare la storia vera e propria a resoconti stile Lonely Planet delle sue ricerche tra archivi, escursioni sui luoghi, interviste, ecc... che sono di una noia abominevole. In più la storia degli antenati Mazzucco emigrati in America all’inizio del Novecento è completamente rimaneggiata da passaggi di fantasia a cui si aggiunge pure la presenza del soprannaturale e forse di E.T. che perseguitano il personaggio che dà il titolo al libro, e lo stile della narrazione lascia pure un po’ a desiderare così scialbo e inconcludente.

Così “Vita” poteva essere un bel libro sulla condizione degli emigrati all’inizio del Novecento ma purtroppo è solo un romanzo romanzato di una storia che “poteva” essere vera.

Dovrei parlarvi anche di “L’ètà dell’innocenza” di Edith Wharton, a cui spetterebbe la palma d’oro per la pallosità assoluta, ma direi di rimandare perché per oggi penso sia sufficiente così.

5/10 a tutti

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