mercoledì 29 marzo 2006

"Ho voglia di te" di Federico Moccia | "Il rogo di Berlino" di Helga Schneider


Spacciato come il seguito delle vicissitudini di Step e Babi, “Ho voglia di te” in realtà è la sola continuazione delle mirabolanti avventure di Step.
In un susseguirsi di colpi di scena e amplessi (che manco in “Beautiful”…), ritroviamo uno Step un pochino più maturo che fa sfoggio della sua intelligenza citando frasi famose, versi in latino e brani di libri molto impegnati (ma nel primo romanzo non aveva mica precisato di non aver preso nemmeno il diploma di maturità?).
Rispetto al precedente libro, gli argomenti sembrano più maturi, la storia quindi non si rivolge più a lettori teen-ager, vista anche la quantità di rapporti sessuali descritti abbastanza minuziosamente (leggete ad esempio le pag. 25-26).
No, decisamente non è destinato ad un pubblico di ragazzini.
Ma la maturità finisce lì, perché tutto il resto è il solito scadere negli eccessi e nell’inverosimile: pestaggi, sempre ad opera di Step, che nemmeno le Tartarughe Ninja riuscirebbero a sostenere in quattro, e dai quali Step se la cava sempre senza problemi perché la violenza è ancora giustificata; la sorella di Babi che rimane incinta dopo aver avuto il suo primo e unico rapporto sessuale (sarà stato lo Spirito Santo?); la nuova figura femminile di riferimento per Step, una certa Gin (Lemmon?), che costruisce una farsa assurda; per non parlare poi del capitolo 21!
Se nel primo libro la narrazione e lo stile erano troppo scorrevoli, adolescenziali, in questo seguito Moccia ha voluto strafare, per cercare di rendere evidente la maturità che nel primo libro non aveva (e nemmeno adesso, in verità…), ma il tutto è così appesantito da fiumi di parole utilizzati per descrivere ogni inutile secondo della vita dei protagonisti, troppi flash-back per ricordare al lettore cosa accadde nella tale o nella tal’altra situazione, luoghi comuni a non finire dove il mondo della televisione è ovviamente visto come un ambiente corrotto, dove l’unico e il solo modo per poter fare carriera è l’essere “disponibili” con chiunque. Ma non preoccupatevi: se state per essere violentate da tre vecchi bavosi, e se sarete fortunate, arriverà Step che vi salverà pinzando con la graffettatrice i testicoli dei cattivoni (cito le pagine 320-324).
E poi Moccia si lamenta perché il suo stile di scrittura viene definito “vanziniano”… come lo definiresti allora? “Proustiano”?
Molti gli errori: Step, sul filo dei ricordi, pensa a quando vide al cinema “Pretty Woman” con Babi, poco verosimile dato che il film è del 1990; e ancora, Step ricorda uno sceneggiato su Ligabue visto in tv da bambino, lo sceneggiato in questione è del 1977 (lui non poteva essere ancora nato) e dopo quell’anno non credo fu più trasmesso fino alla fine degli anni ’90, quando Step non era più in bambino ma si avviava quindi verso i quindici anni o giù di lì; le canzoni che Step ascolta alla radio sono quelle di Venditti e Battisti, ora come ora non credo che un ventenne fashion&trendy di oggi ascolti i classici della musica leggera italiana… Si cita anche “Hair”, la cui colonna sonora viene sparata a 800 decibel dallo stereo di un amico di Step, il film è del 1979, chi è che riesce a figurarsi un teppista del 2006 vestito all’ultima moda con catene e quant’altro che balla sulle note di “Hair”? Io no.
Che Moccia abbia scritto in realtà questo seguito subito dopo la prima stesura di “Tre metri sopra il cielo”, più di quindici anni fa, e ora abbia fatto un po’ di confusione correggendo la versione originale?
Supposizione molto verosimile.

2/10

P. S.: immagino la delusione di tutte le ragazzine nel veder rediviva Babi, dopo molte finte apparizioni, solo a pagina 355.




Se in “Una donna a Berlino” era una donna a raccontare gli ultimi mesi della Seconda Guerra Mondiale vissuti nella città di Berlino, ne “Il rogo di Berlino” è la stessa autrice a narrare le assurde vicissitudini dalla stessa prospettiva di vittima di guerra, ma con gli occhi della bambina che fu in quel periodo.
Tuttavia il valore di testimonianza fedele alla realtà dei fatti, nel libro della Schneider sussiste solo in minima parte: i suoi ricordi di bambina vengono falsati da una narrazione romanzata, dove risulta palese la presenza di commenti, pensieri e valutazioni, riguardo la situazione tragica in cui è costretta, che una bambina di nemmeno sette anni avrebbe potuto formulare solo in maniera approssimativa.
La Schneider però tenta di “rimediare” a questa farsa inserendo una miriade di punti esclamativi - davvero infantili - che hanno il compito di alleggerire il contenuto troppo adulto delle considerazioni che lei bambina sostiene nel corso del romanzo.
E proprio in questo caso mai parola fu più azzeccata: è un romanzo, non una testimonianza di valore storico.
L’episodio dell’incontro con Hitler, poi, è la summa di tutte queste caratteristiche negative.
E’ un peccato, perché il libro poteva essere davvero interessante, soprattutto perché chi parla e vede è una bambina; il tutto si discosta quindi sia da “Una donna a Berlino”, sia da “Il diario di Anna Frank” - dove Anna era già un’adolescente - ma la Schneider ha voluto trasformare i suoi ricordi di bambina in quelli di una donna adulta con tutte le considerazioni successive che ne riducono di molto la validità.

6/10

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