giovedì 2 marzo 2006

"Solitudini imperfette" di Andrea Mancinelli


Zeppo di concetti e frasi retoriche (come: «Ogni volta facevamo l’amore come se fosse l’ultima»), il romanzo d’esordio di Andrea Mancinelli ha un tono greve, da compatimento teatrale.
Ogni personaggio ha un suo ruolo ben preciso: c’è il manager in carriera, l’amico sfigato e così via. Leggono Tagore ed espongono sulla scrivania in ufficio i libri delle “Leggi di Murphy”, da perfetti self-made men, impiegati al top della carriera con un alto budget mensile. Si vogliono tutti bene e tra una battuta e l’altra usano lo stesso linguaggio dei loro coetanei americani (“Hey amico, vai a farti fottere!”), solo che qua siamo a Milano e il protagonista abita a Sesto San Giovanni, il che sembra un po’ ridicolo.
Ma nella vita di questi giovani sulla soglia dei trent’anni è sospesa, terribile e angosciosa, la solitudine, il male di vivere che non ti fa reagire al mattino, che ti fa ricordare che stai diventando grande e devi smetterla di fare il pirla.
Insomma, tutte quelle cose lì che si trovano con facilità in ogni film/libro generazionale (alla Muccino per intenderci).
Roba trita e ritrita.
A pagina 108 ecco riassunti tutti gli stereotipi sui trentenni di oggi, e il patetico si tocca di nuovo a pagina 139: «Siamo ancora dei ragazzi. Ma la nostra capacità di sottrarci alle procedure di questa vita si sta esaurendo».
Ma avere trent’anni è così noioso?

5/10

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