martedì 7 marzo 2006

Maxence Fermine


Il breve romanzo d’esordio di questo scrittore francese, che ho scoperto per caso mentre gironzolavo fra gli scaffali della biblioteca, è capace di evocare perfettamente l’atmosfera candida e leggera che si respira in Giappone, e quale stratagemma migliore per rendere palpabile tutto questo se non mettere in scena un monaco scintoista con le sue “massime” e un poeta con i sui haiku (brevi poesie di tre versi e diciassette sillabe)?
Ma nonostante il breve racconto sia delizioso, la struttura della storia risulta essere troppo perfetta, il che elimina a priori una sorpresa nel lettore, mentre gira le pagine durante la lettura, o un colpo di scena, perché si sa già come finirà la favola.
Sotto questo punto di vista il racconto risulta essere un po’ piatto.
Inoltre il sottotitolo stampato in copertina, “E si amarono l’un l’altro sospesi su un filo di neve”, è la frase conclusiva del racconto. Che delusione leggere l’ultima pagina di un libro e scoprire che la si è già letta…
Davvero bella però la definizione di “poeta”, il quale viene paragonato ad un funambolo che avanza passo dopo passo sul filo della scrittura.


6½/10



“Il violino nero” è il secondo volume di una trilogia dove i racconti che la compongono sono collegati dai colori: in “Neve” era il bianco, in questo secondo racconto è invece il colore nero.
Quello che non mi soddisfa appieno dei romanzi di Fermine, è la semplicità della sua scrittura, in “Il violino nero” poi è davvero troppo superficiale, nonostante ci siano sempre dei concetti davvero interessanti, di quelli che si è spinti e ricopiare sul proprio quaderno o altro per meglio ricordarseli.
Ma pensandoci meglio, anche quest’altra caratteristica finisce per condizionare negativamente il mio giudizio: già il fatto di dispensare frasine ad effetto al lettore, credo sia un altro elemento che va a suo sfavore.
Quindi mi trovo costretta a bocciare i racconti di Fermine, anche se “Neve” mi era piaciuto (quanto basta).
I suoi racconti mi ricordano quei libricini new age, di quelli che si leggono a lume di candela, con l’incenso acceso, circondati da un’aura mistica, in contatto con la sfere magiche del nostro Io, eccetera, eccetera…
Poi tutta questa importanza per i numeri (il sette e il tre ricorrono spesso nei racconti) e per la scacchiera (che ovviamente indica metaforicamente la vita di qualsiasi uomo, sulle cui caselle nere e bianche ci si sposta e sulle quali si finirà la propria esistenza), mah…

5½/10

P. S.: poi, a paragonare la donna a un violino, ci aveva già pensato Man Ray:




Noto con piacere che la bravura (?) di Fermine ad ogni nuovo libro si fa sempre più scarsa.
In questo romanzetto, che chiude la trilogia dei colori, il protagonista è ancora una volta un ventenne alla ricerca di un qualcosa di indefinito (il problema è che non lo sa nemmeno lui cos’è…), che dopo varie assurde peripezie, durante le quali crede anche di essere Gesù (pag. 101: «Tu mi hai dato da bere quando avevo sete, e, cosa ancor più importante, mi hai rivolto la parola mentre le tue amiche mi deridevano»), incontra personaggi a dir poco ridicoli e finisce per costruire Apipoli.
E cos’è Apipoli, vi chiederete? Diciamo che è una sorta di Disneyland per api.
Una cazzata, insomma.
Fermine è ancora fissato con i numeri, le frasi ad alta concentrazione spirituale e la figura del funambolo.
Sinceramente, dopo aver già letto due suoi libri (e già il secondo cominciava a stancarmi), il terzo è piuttosto inutile e ripetitivo.
Meglio fermarsi al primo, “Neve”, e lasciar perdere gli altri.
Ho scoperto che ha pubblicato altri quattro libri, ma lungi da me l’idea di volerli leggere!

3/10

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