venerdì 30 marzo 2007

"Il giardino delle vergini suicide" di Sofia Coppola (1999) e "Thumbsucker: il succhiapollice" di Mike Mills (2005)

"Il giardino delle vergini suicide": una storia decadente in cui ne faranno le spese le cinque (mica tanto) vergini sorelle del titolo.
Ma perché si suicidano? La stessa domanda ritorna anche dopo aver visto il film, ché già il libro da cui è tratto (“Le vergini suicide” di Jeffrey Eugenides) non dà informazioni, a parte l’incomunicabilità tra le ragazze – legate fra di loro da un rapporto quasi morboso - e i genitori ottusi; così non si comprendono assolutamente le ragioni che spingono il quintetto a morire coronando, definitivamente, con l’horror il finale del film.
Vogliamo allora ricondurre la causa al solito disfacimento dei valori americani post-Woodstock (ci troviamo negli anni ’70), al moralismo dilagante e ormai obsoleto per i giovani moderni?
Ai soliti temi vecchi e abusati, allora.
Se fosse così, ma in fondo lo è perché non trovo altre spiegazioni, il libro e di conseguenza il film si incamminano a braccetto nel vasto mondo dei prodotti artistici senza invettiva.
Da una regista che ha saputo creare un film come “Marie Antoinette”, mi sarei aspettata un esordio più promettente. Ma forse è solo per via del brutto soggetto, che avrà causato anche la lentezza mortifera del film è una sequela di dialoghi ammorbanti.

5/10

"Thumbsucker: il succhiapollice": il diciassettenne Justin sta per finire il liceo, ma a causa del rapporto conflittuale – o addirittura asettico e quasi assente – con i genitori si succhia il pollice continuamente, somatizzando in questo modo le difficoltà famigliari e il tormentato periodo adolescenziale.

Attenzione! quando in una recensione appaiono insieme le parole conflitto, adolescenza e genitori, mentre guarderete il film state certi che vi dovrete sorbire le solite magagne del caso.

Ma contrariamente, qui vi è una piega inquietante del solito filmetto generazionale: Justin viene convinto, su consiglio degli insegnanti e in parte dai genitori, ad assumere psicofarmaci per combattere lo stato di torpore in cui conduce la sua vita.
Al contrario di Superman con la kryptonite, a Justin gli antidepressivi producono una scossa di adrenalina che si ripercuoterà, oltre che sulla sua vita relazionale, anche sul suo rendimento scolastico.
Ma se la banalità nel film sembrava scongiurata, da quel momento purtroppo si precipita nella denuncia all’operato scolastico e all’abuso di quei farmaci distribuiti come caramelle nelle scuole americane, all’incomprensione genitori-figli (ancora?), alle difficoltà degli adolescenti, al crollo psicologico dei quarantenni frustrati e bla bla bla.
Si poteva fare di meglio, e il finale porta ad una detonazione di immani cazzate: Justin è guarito è corre felice e contento verso l’università, mentre i genitori e il fratello si stringono in un tenero abbraccio guardando il loro “ometto” volare verso il futuro.
Coronano questo ca-po-la-vo-ro del cinema indipendente (e mi pareva strano...!) i dialoghi a volte incomprensibili (premio Oscar a quelli pronunciati dal redivivo Keanu Reeves: ogni volta che parlava, tutti a chiedersi “Ma che cazzo avrà voluto dire?!”) e le melodiose sinfonie cantate dal coro delle voci bianche che ti massacrano il cervello già dai titoli di testa.

5/10

[non me ne vogliate se ho svelato il finale, ma tanto chi se lo guarda ‘sto film? io non avevo scelta, era compreso nella rassegna del cineforum]

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