martedì 1 maggio 2007

"Canne al vento" di Grazia Deledda

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In un piccolo paese che sorge a ponente della terra Sarda, tre sorelle, appartenenti alla ristretta nobiltà dei possidenti terrieri, vedono la loro vita sconvolta dall’arrivo del loro unico nipote, figlio della sorella più giovane scappata di casa molti anni prima.

Vita tetra, legata alle credenze popolari, alle superstizioni pagane, agli scongiuri e, per contro, alla religione e alla certezza di un destino ineluttabile e già scritto alla nascita.
Nel romanzo si dipanano episodi insignificanti di tante scialbe esistenze, continuamente esaminate da un narratore onnisciente che rende così il racconto un’unica e lunga introspezione psicologica; in fin dei conti “Canne al vento” non narra una storia singolare, ma lo spaccato di qualche anno di vita di un gruppo di persone misere, riconducendo tutto come logico al verismo popolare ottocentesco e alle parabole cristiane.
Come ne “Il giorno del giudizio” di Salvatore Satta ogni personaggio è disilluso, sconfitto già in partenza con l’unico pensiero fisso alla morte che presto lo porterà via; la fede in Cristo infatti non viene vista come mezzo per trovare la serenità, ma come strumento per espiare le proprie colpe completamente succubi e timorati di Dio. Nonostante ci sia qualcuno che tenta di rimediare alle disgrazie altrui tentando di rompere quella sorta di incanto funereo che attanaglia, prime fra tutti, le sorelle protagoniste, al compimento del “miracolo” (ma sarà poi veramente un lieto fine?) non ci sarà - come plausibilmente sperato - gioia ed esaltazione divina, ma solo la morte e l’assurgere al cielo del disgraziato a ‘mo di martire, e una tristezza desolante che attanaglia definitivamente il lettore.
Proprio come per “Il giorno del giudizio”, non capisco quale attrattiva morale ci sia in storie come queste, davvero troppo avvilenti; posso dire almeno di aver colmato una grossa lacuna in campo letterario italiano.
Ma non mi è piaciuta.

n. c.

“Canne al vento”
Grazia Deledda
Acquarelli, Giunti, 5 €

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