domenica 13 maggio 2007

Ultimi manga e "La vie en rose" di Olivier Dahan (2007)

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“Emma” n. 4: “uuuh; iiih; ah; oooh” e altri suoni non meglio identificati pronunciava la sottoscritta durante la lettura di questo me-ra-vi-glio-so manga. E con gli ultimi sviluppi devo dire che “Emma” è davvero il più bello, appassionante e perfetto manga che abbia mai letto.
[cercherò di non fare spoiler, nel caso ci sia qualcuno che non l’ha ancora letto]
La storia tocca il suo culmine esattamente alla metà della sua durata (otto numeri in totale - prima si diceva 10) con due colpi di scena fondamentali per il futuro di Emma, nonché di William, e di buona parte dei personaggi alle loro spalle.
La lentezza e la perfezione sofisticata dei numeri precedenti vengono un po’ oscurate da un susseguirsi incessante di reazioni a catena che hanno la passione e l’amore alla loro base; sentimenti poco controllabili che smuovono gli animi improvvisamente.
Non è affatto un difetto, anzi, con questa “esplosione” la resa finale dà al manga maggior attrattiva e il lettore si trova, come durante la partenza di Emma due numeri fa, ad essere maggiormente partecipe ed agitato (sì, io lo ero…) nel seguire la storia.
A questo proposito va però segnalato un episodio che ho trovato tutto sommato forzato: Monica che corre e sbraita in difesa della sorella Eleanor. Sarà servito per arrivare con più “pepe” al primo mozzafiatante colpo di scena, ma anche in sua assenza (mi riferisco all’ira di Monica) la rivelazione sarebbe stata più credibile e conforme alla caratteristica calma del manga. Che poi, voglio dire, la rassegnazione di William senza il siparietto su Monica sarebbe stata ancora più d’impatto, e per spiegare il forte legame che unisce le due sorelle non c’era bisogno di cotanto sbandieramento.
Altri momenti in cui l’autrice si è fatta un po’ prendere la mano (come mi aveva fatto notare Cecilia) ce ne sono ancora: la prima parte del capitolo 27, in cui si sfiora l’erotico con un nudo (quasi) integrale e la conversazione sensuale tra i coniugi tedeschi, anche se quest’ultima potrebbe esser vista come uno stratagemma per far notare quale differenza ci sia tra il vivere rigoroso della gentry inglese e quello della media borghesia tedesca (e forse del resto d’Europa).
Ma l’”Emma” che conosciamo ritorna in emozionanti sequenze come quella che si svolge nel palchetto a teatro tra William e Eleanor, la visita di Emma al cimitero e la sua mirabile trasformazione in cui si toglie, con un gesto semplice, gli occhiali.
E che dire delle ultime 30 pagine?!?!
A momenti svenivo pure io, e non solo... [ops, non dico chi] perché dovrò aspettare altri due mesi per leggere l’atteso seguito!

n.b.: la sfacciatissima “marchetta” editoriale della curatrice della rubrica della posta, strategicamente inserita a metà volume. *tristezza*


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“Le chevalier d’Eon” n. 1: ispirato al personaggio realmente esistito all’epoca del Re Sole, il nobile D’Eon de Beaumont qui in versione manga, nella notte, veste ambiguamente i panni di donna per vendicare la sorella tragicamente morta durante oscure macchinazioni sataniche.
Volevano farcelo passare per il nuovo “Lady Oscar”, ma il manga in poche parole possiede: comicità idiota con tanto di cuoricini, parolacce inserite senza cognizione di causa, noia e ripetitive battaglie cappa e spada con i malvagi di turno.
I tre capitoli principali del numero che apre questa nuova serie hanno inoltre la brutta particolarità di essere la fotocopia l’uno dell’altro con una struttura ricorrente: morte di una povera fanciulla, trasformazione di D’Eon da uomo a donna, invocazione della fidata spada a mo’ di Excalibur, morte del cattivo e fine del capitolo. Cambia solo il morto.
Se ci aggiungiamo poi che D’Eon-donna ha interminabili boccoli biondi (parrucca) e che è accompagnata da un gatto mutante con qui sembra parlare telepaticamente…
Viva Sailor Moon!

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“Lone wolf & cub”: la lettura degli arretrati di questo manga va a rilento - sono appena al n. 10 - indi per cui pubblicherò una recensione complessiva dell’intera serie al termine della sua pubblicazione, visto che l’ultimo numero (il 24) uscirà il 14 giugno. Che è ormai alle porte.

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"La vie en rose" di Olivier Dahan: umore a terra e malessere generale mi si sono abbattuti addosso durante e dopo la visione di questo film.
Due ore e mezza in cui si susseguono accadimenti biografici della cantante Edith Piaf degni di una telenovela sudamericana. Peccato che sia la verità e non ci sia nulla da ridere.
Nata e cresciuta nella maniera più misera e triste possibile, rischiando di diventare anche cieca, a vent’anni accetta la proposta di un impresario che la vuole fra i suoi artisti “da bar” ottenendo così i primi successi canori.
Ma inizialmente se ne frega della fama e con i suoi denti marci sputacchia la sua superbia davanti a tutti, con l’atteggiamento di chi della vita se ne frega e preferisce una bottiglia di whisky a un elogio per la sua bravura artistica.
Il ritorno, dopo la morte (sospetta) del suo impresario, fra i reietti della società e la consapevolezza di essere rimasta sola e perduta le farà però prendere più coscienza di sé.
Non tanto però dall’essere, a mio parere, ritenuta un mito immortale da osannare come la vedono tutt’oggi i francesi.
Il suo atteggiamento sprezzante per la fama si ribalta nella certezza di avere più probabilità di ottenere ciò che vuole: “A che serve, se no, essere Edith Piaf?”.
Al culmine del suo successo in Europa e i primi riconoscimenti in America tratta tutti i poveri membri del suo entourage come delle merde secche; sul palco ammalia il pubblico con una gestualità tutta sua: movimenti a scatti, bizzarri tic nervosi che trovo poco attraenti; si allarga la sua cerchia di conoscenze e i cantanti che di lì a qualche anno diventeranno famosi quanto lei, passano tutti nel suo letto (Georges Moustaki, Theo Sarapo, Eddie Constantine, ecc.), tuttavia il regista ci fa credere che l’unico e indiscutibile amore della Piaf fu il pugile Marcel Cerdan.
La tragica morte del giovane è al centro di una straziante sequenza in cui la bravura di Marionne Cotillard, che interpreta la cantante, penso proprio sia da Oscar.
Dell’intero film, un elogio va infatti alla Cotillard che è diventata un tutt’uno con il personaggio interpretato, tanto da mimarne perfettamente le movenze, gli sguardi e il carisma originale.
Infatti checché se ne dica, la Piaf sarà stata decisamente bruttina e maleducata ma aveva sotto le così dette “palle”.
Tuttavia resta comunque un’artista e una persona dall’atteggiamento e dagli ideali discutibili, che il regista ha cercato però di caricare di bontà con l’intento di farla passare per una poveretta toccando l’apice nella sequenza finale con ancora più melodramma, fino a sfiorare l’incubo: dopo una schermata nera su cui appaiono le parole “1963: ultima notte”, assistiamo agli ultimi rantoli di vita di una donna ormai sfatta dall’alcool e dalla dipendenza della morfina, malata di fegato, artritica e soggetta a continui collassi. Arriva così la botta finale con la rivelazione dell’esistenza di una figlia, avuta poco più che adolescente, morta a due anni di meningite e tenuta nascosta a tutti.
In quel momento i dieci presenti in sala, me compresa, sono sbottati.
Un altro episodio del genere e ci saremmo suicidati sulle poltroncine.
Olivier Dahan ha insistito un po’ troppo sul lato compassionevole, certo che ora in Francia avrebbero glorificato lui al posto della Piaf per aver dato un quadro della cantante così ispirato e misericordioso.
Non ha fatto i conti però con chi, della Piaf, sa poco o niente e che avrebbe preferito un bio-pic meno di parte.

6/10

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